Questa è l’intervista in cui Ghemon parla di depressione. Non nel senso che ha assunto il termine in un certo discorso comune – tristezza, immobilità – ma nel senso clinico della parola: medici, psicofarmaci, terapia. Realtà. La malattia si intravede in diverse tracce del suo nuovo album, Mezzanotte, e Ghemon ne ha accennato sui social media, ma oggi ne discute apertamente con me. Siamo un po’ tesi tutti e due, poi diventa tutto molto normale.
Per quanto possa essere normale un rapper di 35 anni, adorato dai suoi fan, che si ritrova in mano una vita straordinaria, compresa la lucidità con cui sta cercando una soluzione e i tre anni di travaglio che lo hanno portato al disco. «La depressione ha sempre serpeggiato», dice. «Mi ricordo questi grossi momenti di polemica in casa con la mia mamma all’inizio dell’università, dove lei diceva che mi vedeva disteso sul letto a guardare il soffitto. Poi, più avanti, c’era il fatto che un sacco di cose non mi bastavano mai, e sapevo che era il lato negativo della mia medaglia di essere un perfezionista. Perché l’ambizione è, volendo, la parte positiva, e la parte negativa è l’insoddisfazione costante. Credo di aver capito che qualcosa non andava per niente bene quando ho fatto il Primo Maggio in San Giovanni a Roma e la sera ero molto, molto triste, anche se avevo suonato di fronte a 300mila persone. Non ero contento della collocazione, pensavo che mi meritavo di più, ma forse non lo stavo dimostrando, allora forse non ero abbastanza bravo… E poi, a gennaio 2016, nel mezzo del tour di Orchidee, è arrivato un fastidio che sentivo avvicinarsi da tempo. Io lo chiamo il no universale. È quando i confini delle domande si perdono, e le domande diventano sui massimi sistemi, e tutto quanto diventa: no».
Non era la prima volta che i pensieri di Ghemon gli si rivoltavano contro, ma lui credeva ancora di poterli gestire. Si sbagliava. «È vero che campare d’arte è un privilegio, ma c’è un’escursione emotiva mostruosa. Un giorno parti, fai ore e ore in furgone, arrivi in un posto, canti, la gente grida il tuo nome, vai a letto alle sei, il giorno dopo ricominci, sleep deprivation totale… poi all’improvviso ti ritrovi di domenica pomeriggio a casa tua. Questo per due anni di fila. È logorante. Nel momento del no universale ho iniziato a non voler più uscire di casa. È stata la prima volta che è successo così».
Gli era già capitato – «avevo avuto periodi molto lunghi di sommessa malinconia, pensavo: non posso più fare questo lavoro, non valgo niente, devo cambiare» –, ma tendeva a scambiare il suo malessere per crisi creativa. «Alla quarta volta che la psicologa mi chiedeva, com’è andata questa settimana?, e io le dicevo che non avevo neanche voglia di alzarmi dal letto, e lei, vogliamo forse parlare col dottore?, io le rispondevo: no, lo so che quando devo iniziare a fare un disco sto così, è come se avessi davanti una montagna gigantesca e io dovessi trovare un buchino. Errore molto grande da parte mia. Come se stare male fosse un castigo divino dovuto: queste sono le tue doglie e te le tieni».
A gennaio dell’anno scorso c’è stata la prima diagnosi, da parte di una persona di cui Ghemon si fidava, il neuropsichiatra padre della sua ex fidanzata. «Mi ha lasciato raccontare questa storia per come si era evoluta, poi ha unito i puntini e ha detto: depressione. E io l’ho presa molto male. L’ho vissuta come una sconfitta del mio cervello. Pensavo, non ne uscirò mai, se prendo delle medicine divento scemo…». Ma le medicine, poi, le ha accettate. Parliamo dello stigma associato agli psicofarmaci, che in un attimo hanno smesso di essere il rimedio universale prescritto a chiunque, e sono diventati un tabù. «Cattiva informazione», dice lui. «Le medicine non mi hanno cambiato il carattere, non mi addormentavo in giro. Nel primo periodo prendevo un attivatore della serotonina».
«A un certo punto si erano dissolte tante paranoie, ed è stato bello», continua Ghemon, «però, come mi è stato detto spesso, il farmaco è una stampella. Forse ha contato di più l’aver dato un nome a un disagio che credevo fosse una colpa. Una volta mi dicevo: sono insopportabile, quindi sono destinato a rimanere solo e morire miseramente. Quasi devo essere contento che nonostante questa condizione sono riuscito a fare tante cose. Però avrei potuto prendere alcune decisioni molto prima. Avrei potuto avere del coraggio verso me stesso che mi è mancato». A questo punto glielo chiedo: l’adulto che si è sempre sentito «un pesce fuor d’acqua» nell’hip hop italiano, è stato anche un ragazzino chiuso, fuori posto, strano?
«No, ma l’hip hop è arrivato quando avevo tredici anni in una città di provincia. Mi dava la possibilità di avere una cosa tutta mia, in un’epoca in cui non c’era Internet. Ce la siamo coltivata e inventata noi – i graffiti, rappare, ballare – ci siamo inventati le regole». Alcuni ricordi sparsi: Avellino attraversata a piedi con il walkman, i professori che gli ripetevano “Picariello, non ti alienare”, la scoperta del suo eroe, D’Angelo. E poi Common, Mos Def, Erykah Badu, André 3000. Ma la musica che gli ha dato un’identità, che gli ha permesso di crescere restando, in fondo, un diverso, e che lui considera l’amore della sua vita, è stata anche «una grandissima bolla».
Me l’hanno ripetuto spesso: ‘Bravo Ghemon, eh, però pesante’. Prendere posizione non è cool, ma io lo devo fare
E ha rischiato di soffocarlo: «Mi è stata stretta la chiusura da parte della comunità. Mentre gli altri ascoltavano gruppi col cappuccio in testa, io mi ero imbattuto negli Outkast. E dalla Rivincita dei buoni in poi, mi sono preso del frocio per un sacco di tempo. Sulla copertina di quell’album ci sono io sdraiato sull’erba che sorrido? Sei frocio. Scrivo due rime sull’omofobia? Eh, ma allora sei proprio frocio… Ora, un certo super-omismo nell’hip hop c’è per definizione, e per me in realtà sarebbe una cosa pure un po’ bella, perché è fumettistica. Una persona qualunque si mette il costume di Superman, dice “sono alto tre metri”, e la gente le crede. Però nel nostro Paese, dove una tradizione non c’è, sembrava l’unica strada possibile. Pochi hanno capito che in un momento in cui la rinascita dell’hip hop italiano significava un gruppo come i Club Dogo, io non volevo essere il loro sfidante: volevo mettere i piedi per terra. Ero uno che andava al Leoncavallo col maglioncino Polo Ralph Lauren… non hanno mai saputo troppo come classificarmi».
Certo, per un artista può essere difficile ammettere di avere Un Problema, se la sua scena viene considerata il dominio assoluto di uomini e donne capaci di abbattere ogni ostacolo. E la malattia naturalmente non è sparita alla comparsa di un medico saggio. «Ci sono state fasi intermittenti durante la scrittura del disco che sono state dure da contenere. Ero in una solitudine che non avevo scelto io. Purtroppo a volte succedono, gli anni orribili. C’è un pezzo, Bellissimo, in cui racconto: tutto sommato sono vivo, quest’anno in fondo è stato positivo. Se lo ascolti senza attenzione, quel pezzo ha qualcosa di allegro. E intanto ti dice, “ho scoperto che è una cosa bellissima stare fermo durante gli attacchi di panico”. Parla di un disagio mostruoso e invece di andare in una direzione cantautoriale autolesionista ti dice, prendiamo la parte positiva: ho imparato qualcosa».
La scrittura però non gli è bastata. Il momento di svolta c’è stato prima dell’estate, grazie a una delle sue mille deviazioni rispetto alla musica. «Non riuscivo a rientrare nell’ordine e nella disciplina che per me sono necessari ad avere una vita regolare pur essendo un creativo. Il disco era già finito di registrare, però non era quello il mostro, evidentemente… Ho fatto un evento per la Nike, di running, a Milano, ero il co-host, e i due ospiti d’onore erano Carl Lewis e Kevin Hart. Un grande atleta e un grande comico. Ma io ero tanto a disagio con me stesso. Avevo recuperato un sacco di peso, perché nel frattempo avevo pure perso 30 chili. Non l’ho ancora risolto, il disagio legato al disordine alimentare. Nel nervosismo o nella tristezza vado a finire nel cibo. Divento, tra virgolette, bulimico. La sera dell’evento mi sono ritrovato con un po’ di atleti che erano venuti come testimonial. Alla cena ero nel massimo del “mi sono divertito”, ma se uno avesse visto tutto da fuori avrebbe capito che io ero un tornado di disagio che mangiava».
Cos’è cambiato quella sera? «Ho scoperto che mi sento vicinissimo alla mentalità del sacrificio dell’atleta professionista, perché io la musica l’ho vissuta così. Motivazione, tenacia, sforzo, gli amici che stanno facendo lo stesso pezzo di strada con te vanno a divertirsi e tu dici, no, raga’: oggi pomeriggio sto studiando canto… Forse la presenza di quegli atleti quella sera ha fatto scattare in me una molla: non posso resistere più con questa intermittenza. E precisamente dal giorno dopo ho iniziato di nuovo il mio ordine. Mi alleno tutti i giorni, in modo da avere sempre un obiettivo. Guardando le finali NBA ho trovato un’intervista di LeBron James che diceva: “Da che ricordo, il primo pensiero, per me, è andare in palestra, appena mi sveglio”. Mi ha ispirato LeBron e non una frase di Bob Dylan. Ho ricominciato a essere concentrato, più stabile». Il che ci porta a una domanda inevitabile: la depressione è qualcosa con cui si combatte, o con cui si impara a convivere? Ghemon la prende alla lontana.
Parliamo del suo amore per la comicità, che lo ha portato a «divorare stand-up», da Louis C.K. a Patton Oswalt passando per Maurizio Milani. E poi arriviamo al punto. «Per me, da una parte si combatte. Ci sono degli strumenti e la lotta sta nella conoscenza. Possiamo sapere a determinati meccanismi come si arriva, e quando stanno arrivando. E anche come non innescare certi piccoli blackout. Ora, per esempio, io parlo ad alta voce: dico, qui c’è un telefono, qui c’è un’altra cosa, perché mi sta venendo l’ansia?, non ha nessun senso. In altri momenti ci si deve convivere. Quindi ora sto decisamente molto, molto meglio, però ci sono stati momenti in cui il disco era finito ma non poteva uscire, in tour non c’ero, era mercoledì, non avevo voglia di fare niente, non avevo nessun amico che voleva uscire, nessuna ragazza che frequentavo, ero triste…», alza le spalle, «… e ci ho convissuto».
Al di là della musica, a me stupisce che in un periodo storico di sharing compulsivo possa ancora risultare tanto difficile condividere le fragilità. Su questo Ghemon ha un’idea precisa. «Lo potrei riassumere in un atteggiamento di mio padre. Lui, per protezione, si preoccupa quando vede un cambiamento importante, perché le cose che sembrano sempre uguali possono dare sicurezza. Però io ho sempre puntato tutto sul dire la verità, sia che stessi bene, sia che stessi male. È proprio la mia cifra stilistica fin da quando ho cominciato. Agli occhi di mio padre, raccontare certe cose significa non essere socialmente invincibile. E quindi vulnerabile. Quindi ti becchi gli insulti, quindi diventi uno sfigato. Ma io sono tutto questo». Allora non è un caso che il primo singolo tratto da Mezzanotte sia Un temporale; e soprattutto che il disco si chiuda con Kintsugi. Non è la sua Pursuit of Happiness, ma ci può andare vicino.
«Il disco si apre e si chiude con due pezzi molto forti, di chiaro stampo bragging and boasting rap. Però in uno dico, ho avuto per la terza volta la pericardite e la depressione, e in un altro dico, sono fortissimo e bravissimo, le altre cose le so già perché me le hanno già dette tre psichiatri. Sono due dichiarazioni di forza. Kintsugi è anche legato a una ragazza che è arrivata proprio in un momento di transizione, molto brutto, e che in poco tempo ha infilato il coltello in una piaga che aveva davanti, con una notevole cattiveria che non avevo mai forse trovato in una persona. Purtroppo lei lavora nel mondo dello spettacolo, quindi ce l’ho davanti agli occhi, sempre. È la prima volta che mi succede, di solito per le mie ex fidanzate l’incubo sono io… Avevo provato a spiegarle la pratica del kintsugi, per cui una ceramica rotta viene riparata e le crepe la rendono più preziosa, e lei mi aveva detto, “sì, ma siamo in Italia, non siamo in Giappone, non funziona così”».
Ho deciso di avere un megafono in mano e di volerlo utilizzare, non solo per il mio tornaconto
Scuotiamo la testa. Commiseriamo le rispettive situazioni sentimentali. E già che ci siamo, testiamo un altro mito: quello per cui una professione creativa in sé sarebbe abbastanza a sanare qualsiasi disagio. Secondo Ghemon, «ti aiuta, ma può anche essere solo un amplificatore. Sai quante volte mi è stato detto, è cambiato il tuo linguaggio del corpo da quando hai perso 30 chili? Magari facevo un concerto, però ero ingobbito e chiuso in me stesso, e mi difendevo dietro l’asta del microfono. Non è per forza detto che vai in scena e cambi tutto. Stai imparanoiato? Si vede e si sente. Sei distratto? Ti dimentichi le parole. Non è sempre una cifra. Lo è stata, per me: potevo urlare determinate cose che mi avevano fatto male quando le avevo scritte, consegnarle a delle persone, sapere che le persone si sentivano rappresentate ed era anche la loro storia, e quello è stato una sorta di terapia, perché le ha alleggerite con il tempo… a un certo punto sono diventate soltanto le parole della canzone. Un vago ricordo. Quello funziona».
E mentre aspetta di vedere come andrà Mezzanotte, c’è una reazione che Ghemon immagina. «In un Paese dove al pomeriggio dobbiamo guardare i tronisti, perché ci dobbiamo distrarre, qualsiasi cosa impegnativa per delle persone è uncool. Preferiamo Berlusconi che va con le ragazzine a un politico di mestiere. Parli di cose serie? Sei palloso. Una frase che mi hanno ripetuto spesso: “Madonna mia, quant’è pesante Ghemon… bravo, eh, però pesante…”. In verità l’ho proprio abbracciata, questa cosa qua. Quando i ragazzi adolescenti mi vengono a dire: “Mi hai aiutato in un periodo duro”, ho capito che quello che per alcune persone sarebbe stato uncool e immodesto – prendere posizione, provare a spostare l’opinione, schierarsi per qualcosa – io lo devo fare. Perché non lo vuole fare nessuno. Quindi qualcuno dirà: “Ti vuoi mettere sul piedistallo? Chi ti credi di essere, a nome di chi parli?”. Sinceramente, ho deciso di avere un megafono in mano e di volerlo utilizzare, non solo per il mio tornaconto. Al di là della depressione».