Non è stato un momento facile per Sam Smith. Dopo l’esplosione del primo disco, dopo il successo prima dance, in coabitazione con i Disclosure, poi pop (grazie all’incredibile In the Lonely Hour, quattro Grammy e 12 milioni e passa di copie, con tanto di consacrazione jamesbondiana e Oscar, per gradire), non l’ha fatto vivere bene. «Non mi piacevo», semplicemente e dolorosamente, dice Smith.
Ciò che è uscito da quella sofferenza terribile è The Thrill of It All. Il nuovo album è un lavoro scuro e pensoso, che passa attraverso writer’s block, cuori infranti e alcolismi. E Sam Smith usa proprio il paragone alcolico per parlare di questo pensoso disco, definendolo un whiskey caldo.
Ha fumato un sacco di sigarette (lo dice in Burning, “più di venti al giorno”), ha sofferto tanto, e si sente. La voce non è cristallina, è sporcata, si è infangata negli ultimi anni, tocca nuove vette, ma verso il basso. È un disco più vero, per quanto vero possa essere un album di una popstar. L’aveva detto, Smith, stava andando a fondo, stava scavando nelle sue paure, nei suoi segreti. E le ha messe in mostra qui, vergognandosi al punto di piangere quando è uscita Too Good at Goodbyes, prima esternazione delle sue paure.
Se non avesse una voce come quella che si ritrova, questo sarebbe un disco da crooner consumato
Burning è virtuosa e malinconica, Baby, You Make Me Crazy è ballabile, divertente, un funky quasi ’60. Ma è una tragedia ballabile. È meno pop di quello a cui siamo abituati, non ci sono pezzi semplici, o se lo sono, lo sono solo all’apparenza. Tutto il disco è pervaso da un gusto gospel, ma non dagli acuti virtuosi, quanto dalla sofferenza black.
Se non avesse una voce come quella che si ritrova, questo sarebbe un disco da crooner consumato, graffiante e intenso. Se fosse nato nel Bronx sarebbe il canto sofferto della vita di strada. Ma è, “semplicemente”, la conferma del talento vocale di Smith. E dell’esistenza dura che a volte tocca vivere. Anche alle popstar.