Mettiamola così: mentre in Francia le fabbriche e le università sono occupate, i Beatles sono in India e i Rolling Stones in cima alle classifiche di tutto il mondo con Jumpin’ Jack Flash, al cinema è appena uscito 2001 Odissea nello spazio e la guerra in Vietnam vive la sua fase più drammatica, il 29 maggio 1968 allo stadio Wembley di Londra, di fronte a 92 mila spettatori, durante i tempi supplementari della finale di Coppa dei Campioni con il risultato fermo sull’1 a 1, George Best mette a sedere il portiere della squadra avversaria con una finta di destro e appoggia di sinistro il pallone in gol. Un periodo abbastanza interessante per essere vivi.
La partita finirà 4 a 1 per i “Red Devils”, – sebbene per quella partita la divisa era blu – nella prima squadra inglese ad alzare al cielo il trofeo più prestigioso d’Europa, ci sono anche il campione del mondo 1966 Bobby Charlton e l’allenatore Matt Busby, a dieci anni esatti di distanza dal disastro aereo di Monaco di Baviera, dove persero la vita otto giocatori del Manchester United, e al quale sopravvissero miracolosamente.
Era il minimo che si potesse fare per riscattare il secondo posto nella prima divisione inglese, vinto all’ultimo dagli eterni rivali del Manchester City.
Il migliore, almeno per una notte a Londra, per un decennio, per molti per sempre
Pochi mesi dopo George Best sarà eletto giocatore dell’anno e vincerà il pallone d’oro, aveva 22 anni e in molti dicono che lì sia iniziato il suo declino e magari sarà anche vero, non ha più vinto titoli, aveva vinto già tutto. Forse è questo il prezzo da pagare per entrare nella leggenda o forse semplicemente era un periodo abbastanza interessante per essere vivi e George Best a quanto pare non voleva essere da meno. Che differenza c’è tra scendere in campo ubriachi, segnare due gol, scappare dall’altra parte del mondo con Miss Mondo, farsi arrestare, non presentarsi agli allenamenti, schiantarsi con la macchina, andare in bancarotta, segnare altri due gol domenica, contro chi è che giocavamo? Non ci ho fatto neppure caso.
La sua parabola è stata ripercorsa in tutte le salse e non ha senso ripeterci per l’ennesima volta, la vita privata, le infinite citazioni, l’alcolismo: è pieno di libri, biografie, film, documentari che la raccontano fino a far diradare i confini tra realtà e mito, tra calciatore, “rockstar”, essere umano. L’iconografia di George Best si colloca con pieno diritto tra quelle dei giganti sportivi della storia, ma soprattutto tra le figure pop più significative del Novecento, che incarnano un’epoca, la rappresentano, in questo caso con una maglia rossa a maniche lunghe, un pugno alzato a esultare, due basettoni e i capelli a caschetto e un cognome che, vabbè, neanche a inventarselo si poteva fare di meglio.
Il migliore, almeno per una notte a Londra, per un decennio, per molti per sempre. E dire che le cose erano iniziate con una fuga dopo soli due giorni dal primo trasferimento allo United. Gli allenamenti erano troppo duri per il nordirlandese di quindici anni, alto 1,75 e che non arrivava nemmeno a pesare 60 chili e che voleva stare con la tanto amata mamma Anne, che vide morire a causa dell’alcol e dalla quale non prese di certo il buon esempio, spegnendosi a sua volta a soli 59 anni a causa di una cirrosi epatica.
Le commoventi immagini del suo funerale, il suo tragico appello sul letto di morte, appartengono già a questo mondo qui dove siamo noi in questo istante e non hanno nulla a che vedere con una vita troppo bella per non essere vissuta come l’ha vissuta George Best.