Nelle lunghe e noiose ore di attesa tra il soundcheck e lo show, Brian Wilson parcheggia se stesso in un angolo del palco, nascosto dietro le tende, seduto su una enorme sedia nera. Il mobilio ha viaggiato con lui da Tokio a Tel Aviv, per fare ritorno al Pantages Theatre di Hollywood, questa sera. Vestito color lavanda e abbottonato fino al collo, con pantaloni della tuta e Nike bianche, Wilson siede impassibile sul suo trono di finta pelle, masticando sushi roll, mentre sale il frastuono delle prove e tutt’attorno a lui monta l’agitazione.
Ogni volta che un promoter, oppure un ospite vip, si aggira in cerca di qualcuno da salutare, Wilson chiude gli occhi, e finge di dormire. Dopo 56 anni da Beach Boy, non nega che la preparazione di un concerto sia ancora «un fottuto casino», piena di grattacapi e di dubbi esistenziali. Gli piacerebbe tanto sparire in quella che chiama “The Zone”, un posto in cui meditare, tenere a bada i nervi, e magari pregare un po’. «Mi sento fuori posto, e cerco di assorbire le giuste vibrazioni dalla band e dallo staff», racconta. «Divento molto nervoso, poi mi dico: “Non esserlo, Wilson. Abbi fede”».
A 76 anni è nel bel mezzo di una nuova, imprevedibile fase trionfale della sua carriera. Da quando ha lanciato il tour del 2016 per il 50° anniversario dell’album più iconico dei Beach Boys, Pet Sounds, Wilson è salito sul palco quasi 200 volte, in 24 Paesi, e nuove date sono previste per il 2018. Una corsa estenuante contro i fusi orari, che avrebbe fiaccato il più disciplinato dei performer, figurarsi un anziano signore solitario, che soffre di un serio disturbo psichiatrico e di un atavico mal di schiena, e che odia i live da quando è nato.
Tutto ciò sarebbe potuto non accadere mai. Prima del tour, la spettacolare e fedelissima band di Wilson perdeva un membro, le vendite dei biglietti crollavano, e il musicista mi aveva detto che era esausto e stava valutando il ritiro dalle scene. Dopo, qualcosa è cambiato. Il biopic del 2015 Love & Mercy ha suscitato nuovo interesse verso questo tormentato genio rock, e l’anno dopo persino la tipica depressione post-vacanze di Wilson era svanita. «Le nuvole se ne erano andate, era una benedizione», racconta. Era anche preoccupato dalla sua voce, quanto avrebbero potuto resistere on the road. Forse era solo la paura, a indurlo a tirare avanti.
Raggiunto dal Beach Boy originale Al Jardine e da suo figlio Matt (cui sono affidate le parti più alte che Wilson cantava durante gli anni ’60, l’attacco di Don’t Worry Baby e altri pezzi), assieme alla magnifica Blondie Chaplin alla chitarra e alla voce, Wilson e la sua band si sono presi delle libertà e dati meno limiti sul palco. Durante due epici concerti al Pantages lo scorso maggio, ha condotto i suoi 9 musicisti su una nuova versione di Pet Sounds, cui hanno fatto seguito 25 altri brani dei Beach Boys e brani minori dell’artista. La sua voce era ruvida come ai vecchi tempi, ma ha guidato la band con emozione e con un eccentrico senso dell’umorismo: sembrava addirittura che si stesse divertendo su quel palco. «Onestamente non so cosa sia accaduto», dice Wilson in camerino, mentre alza le spalle e fa un timido sorriso. «Ero sul punto di mollare tutto, ma ho cambiato idea. Mi sono detto: “Cosa farò poi? Guarderò la tv? No, non penso proprio”. A L.A. non stava succedendo nulla di interessante, per cui mi sono risposto: “Fanculo, devi solo alzare il culo e andare in tour”. Quindi ho alzato il culo e sono andato in tour».
Mentre parliamo, Wilson mangia del sushi, impilato in una confezione di plastica, appoggiata sulla sua pancia. Prende l’ultimo pezzo di tonno e fa volare il coperchio per la stanza, mancando il bidone della spazzatura di parecchio. «Sono vecchio!», commenta, gridando. «Sono un uomo anziano, che deve pensare a se stesso. E che cazzo ci posso fare? Nulla, non si può fare nulla contro la vecchiaia. Quando mi guardo allo specchio, non mi piace ciò che vedo. Ma poi ci penso su bene, penso a Paul che è ancora in tour, Mick e Keith altrettanto, e così Mike e Bruce (ex Beach Boys anche loro, nda). Sto diventando vecchio, ma non me ne frega un cazzo. Posso ancora fare grandi cose, ho appena 76 anni, in fondo. Che è un’età del cazzo, ma non importa. Quando sono sul palco, suono come un trentenne, mi prendo una pausa dalla vecchiaia».
Due ore prima dello show, il backstage è pieno di familiari, tra cui sei ragazzi delle varie generazioni di Wilson, vecchi amici e conoscenti del mondo musicale. Brian è insolitamente loquace. Quando un vecchio compagno, Peter Leinheiser, si avvicina, lui gli fa: “Come va col sesso, amico?”. Leinheiser se la ride: “Guido una bici, ed è difficile portare una donna sulla canna”. “Sei in forma. Se tu fossi una ragazza, non so cosa ti farei”, risponde Wilson.
«Non ho scritto una canzone per cinque anni», prosegue, prima di emettere due starnazzi alla Donald Duck. «Ero a corto di melodie, ma ora sono pronto per tornare a comporre». Al Jardine prende una sedia, per fare un punto con il boss. «Hey, è Al Hard-On», dice Wilson, una battuta che probabilmente fa sin da quando i due erano ragazzini. Jardine, il cui timbro è squillante come ai tempi di Help Me, Rhonda, è una presenza gentile e generosa in tour, e Wilson adora stare con lui.
“Come te la passi, vecchio Alan?”, domanda. “Stanco, ma felice”, risponde Jardine, nel suo vestito bianco con il bavero largo, lo stesso look che ha sul palco sin dagli anni ’70. “Tu sai cosa fare, dacci dentro fino a che non è tutto finito”. Wilson annuisce, e spiega che quella frase gli ricorda una canzone, It’s Ok, dall’album dei Beach Boys del 1976 Big Ones. Quando Wilson e suo cugino Mike Love scrissero quel brano, era un momento di grande commozione per il ritorno sulle scene dei Beach Boys: a quel tempo Brian stava lottando contro la sua tossicodipendenza, e la band si era impantanata. «Credo ancora a quel messaggio: lavorare duro è l’unico modo», commenta ora Wilson. «Io vivo in quel modo».
«Sì! Ci provo pure io», aggiunge Jardine. “Alan, sono così fiero di te” gli dice Wilson. “La tua voce è una meraviglia della natura. Ne abbiamo passate di tutti i colori, e guardaci: siamo ancora qua a spaccare culi. Ti voglio bene, amico”. “Tutto merito tuo Brian, anche io ti voglio bene”.
A poche ore dal suo secondo show a L.A., Wilson siede in un tavolo ad angolo nella sua rosticceria preferita a Beverly Hills, con una insalata di pollo e un frappè alla vaniglia. «Questo posto mi manca», dice. «Non c’è nessun posto come casa, ma la strada è qualcosa che hai dentro. Ritirarmi? Dio, no. Fanculo, no. Non se ne parla! Vado avanti. Amo la mia band, il mio tour bus e la mia vita. Mi manca la mia rosticceria, ma posso farcela».
Wilson sembra rilassato, in una polo rosa e con i capelli color grigio sabbia pettinati all’indietro. Si lamenta del fatto che sia difficile rispettare una dieta quando è in tour, e che non riesce ad allenarsi abbastanza. Mi chiede cosa faccio per rimanere in forma, e gli dico che gioco a tennis e che sollevo pesi (molto leggeri). «Davvero?», chiede. «Tipo i pettorali? Ti stai facendo crescere le tette?».
Asettembre è uscita una retrospettiva sul suo lavoro solista, con due nuove canzoni, e Wilson sta già pianificando le sue prossime mosse: vuole andare per la prima volta in tour in Cina, registrare un album con le sue cover rock preferite, e condurre uno show radiofonico dedicato alla musica di Phil Spector. «Per avere successo, devi mettere su i muscoli del cervello», dice. «Non so da dove provengano, ma io li ho. Sono programmato per il successo, per prendere a calci in culo la vita». Quest’anno Wilson ha compiuto 76 anni, e ne pare stupito. «Dannazione, 76», dice. «I fottuti 76, non ci posso credere». Non prova paura, ma una sorta di meraviglia, come un ragazzo che un giorno si sveglia vecchio. In passato i compleanni lo mandavano in tilt, ammette, ma ora «non ho più vette da scalare. Non ho più alti e bassi. È passato tanto tempo da quando soffrivo di depressione, seguita da grandi esaltazioni. Ora per lo più sono piacevolmente depresso».
Gli ritorna alla mente un pomeriggio di un anno fa, quando io e lui siamo andati assieme a Central Park, per visitare il palazzo dove viveva George Gershwin. «Quel posto aveva delle vibrazioni uniche. Sentivo la sua presenza. Lui è stato il mio primo eroe musicale, lo ascoltavo quando avevo tre anni. Rhapsody in Blue mi ha aperto la mente. Aveva 26 anni quando l’ha scritta: non c’era mai stato nulla di simile prima». «Mi fa sentire bene, al caldo. È spirituale. La sensazione dell’amore», aggiunge. Gli ricordo che lui ne aveva 23, quando ha iniziato a scrivere Pet Sounds. «È un gran album, lo so, ma ci sono dischi più rock&roll. Pet Sounds è una specie di introspezione, un disco metafisico».
Wilson ha una relazione complicata con il suo capolavoro, consapevole dell’angoscia giovanile che pervade le liriche e del cantato in falsetto. E, anche se è diventato uno dei dischi più celebrati della storia del rock, nel 1966 si rivelò un fiasco commerciale, e sancì una spaccatura tra Wilson e il resto della band. Mentre Love voleva continuare a sfornare canzoni pop sulle ragazze e la spiaggia, lui si dirigeva verso terreni più turbolenti. Il gruppo non si riprese mai del tutto da quello scisma, anche quando i membri sopravvissuti si sono ritrovati per il 50° compleanno, nel 2012. Il tour è terminato quando Love ha deciso di ritornare a suonare con la sua band, invece che fare nuove date assieme al cugino. I due non si sono parlati negli ultimi cinque anni. Gli chiedo se è immaginabile una nuova reunion: «I Beach Boys potrebbero tornare assieme. Ma senza di me».
«Pet Sounds porta con sé ricordi positivi, ma ripensare a quel periodo mi scombussola: mi mancano i miei fratelli, mi manca sentire Carl cantare, e mio padre, anche se è morto nel 1973». Ma che rapporto ha Wilson con la sua gioventù? «Ho lo stesso amore nel cuore, ma sono vecchio e ne ho passate tante. Non è facile convivere con il cervello di un 23enne». Il suo direttore musicale, Paul Von Mertens, dice che, durante le prove di Pet Sounds, Wilson spesso gioca con le parole. «Non vuole essere un 75enne in pantaloncini e infradito», spiega Von Mertens. «Vuole cantare le canzoni per come le sente oggi».
Al Pantages, Pet Sounds non sembra la parte dello show preferita di Wilson. Ogni tanto si distrae, e in entrambe le serate è fuggito dal palco per un minuto prima della fine dell’ultima canzone, Caroline, No, in modo che, quando Pet Sounds arriva al suo magistrale finale, con il suono registrato di un treno e l’abbaiare del cane di Wilson, il maestro è di nuovo sulla sua sedia, sorseggiando una Diet Dr Pepper. Gli ricordo che Pet Sounds significa molto per generazioni di fan dei Beach Boys. «Sento questo amore, per lo più. Ma mi chiedo se la gente davvero mi apprezzi come performer. Vorrei credere che la mia musica aiuti le persone, li faccia stare bene e sentire innamorati. Ma chi lo può dire?».
Il pomeriggio seguente stiamo viaggiando lungo la Highway 101, nel nuovo elegante tour bus oscurato di Wilson, diretti a Santa Barbara. I suoi tre figli più giovani – Dylan, 13, Dash 8 e Dakota, 7 – sono con noi, mangiano Oreo e giocano con i loro fidget-spinner, mentre sopravanziamo lungo quel paesaggio californiano che il giovane Wilson ha mitizzato nelle sue canzoni: possenti montagne che si immergono nel blu del Pacifico, spiagge scolpite dal vento, surfisti e delfini. Wilson è seduto accanto al pilota, con le Nike appoggiate al cruscotto e gli occhi quasi sempre chiusi. Dice di essere stanco, dopo quattro concerti in sette giorni, e non vede l’ora di godersi le due settimane di riposo prima di Hawaii e Europa. «Mi manca la mia famiglia. Il tempo con loro vale il dolore, la confusione e le stronzate. Ma non voglio stare fermo». Dice che la morsa della depressione ogni tanto lo stritola ancora. «Sono passato attraverso una lunga nottata, non è stato bello», racconta. «Avevo paura di morire e tanta altra merda, una canzone mi ha fatto andare avanti. Conosci Black & White dei Three Dog Night. Se hai bisogno di un pizzicotto, mettila sul tuo smartphone». «È come per Elton John e Someone Saved My Life Tonight, funziona così anche per me. Pensavo di essere morto, ma era tutto nella mia testa. Ora sto bene».
Al Santa Barbara Bowl, sistemati in un posto di lusso sulla collina con vista sull’oceano, un barbecue è pronto per il backstage. Wilson sembra pensoso, preferisce mangiare da solo, seduto sulla sua sedia a lato del palco, circondato dai suoi ragazzi. Stiamo in silenzio per un po’, e capisco che è tempo di lasciarlo solo per entrare nella Zona, prima dello show. Appena lo saluto, mi tiene le mani per alcuni secondi, poi si china e mi dà un bacio. «Spero di fare un bello show stasera», dice calmo. «E spero di andare in paradiso».