“Morto Stalin se ne fa un altro” Voto: 8
Se non conoscete Armando Iannucci, regista naposcozzese (papà napoletano, mamma di Glasgow e pure lui è nato oltre il Vallo di Adriano), dovete colmare questa lacuna il prima possibile. Le sue produzioni televisive – e non solo, recuperate In the loop, sembra scritto e diretto ieri, letteralmente – hanno fatto dire ad alcuni critici, e non c’è alcun eccesso nella definizione, che è “il messia della satira politica”. Morto Stalin se ne fa un altro (in originale solo The death of Stalin) lo conferma, con un cast straordinario a far da coro e orchestra sotto l’abile direzione di un regista che prende la graphic novel di Fabien Nury e ne fa un film di alto profilo politico, di raffinata e grottesca antropologia del potere e di umorismo geniale. Anche nella risata più crassa, nella gag fisica più smaccata, nella scena corale più infingarda e divertente si sente sottile il brivido freddo della paura, della paranoia, della ferocia. Motore di una classe dirigente che aveva nella follia avida di potere il proprio filo rosso – è proprio il caso di dirlo – e nel terrore, proprio e altrui, il fertilizzante di una burocrazia sovietica persa nei corridoi delle segrete stanze, dittatori di un proletariato che odiavano e purgavano. Perché se Stalin era un leader feroce e spietato, capace di ogni ignominia (persino verso i propri figli), i suoi collaboratori e allo stesso tempo congiurati aggiungevano la mediocrità alle loro colpe genocide. Se brillano Buscemi (un Krusciov vacuo e irritante) e Palin (un mediocre e irresistibile Molotov) a incarnare quel potere infame, insaziabile, perverso è forse l’eccellente Simon Russel Beale, nella parte di Beria, vero cattivo del passaggio dalla morte di Stalin – perfettamente raccontata nelle facce e nelle parole dei suoi due soldati di guardia – al golpe che ne sancirà la successione. In questo teatrino rosso sovietico e rosso sangue (il rosso e il grigio, non a caso, sono l’ossessione cromatica del film) Iannucci si muove con grazia e lucidissimo cinismo, non risparmiando nessuno, dipingendo la crudeltà della Storia senza rinunciare a ridere. Ne esce fuori uno dei film più belli degli ultimi tempi nell’ambito del racconto del potere. E guardando ora, nella realtà, Trump, Bannon e soci, si capisce che qui non erano gli ideali e neanche le ideologie a scavare anime turpi, ma solo la sete di potere ossessionante e ossessionata di ego patologicamente e pateticamente alla ricerca dell’affermazione personale, a tutti i costi.
“Corpo e Anima” Voto: 8
Ci sono film che ti fanno lavorare come spettatore. Mettono in moto cervello, cuore, anima e carne. Non puoi vederli con indifferenza, né con distrazione: la regista Ildiko Enyedi ha vinto l’Orso d’Oro alla Berlinale con un’opera che si dipana, con una grammatica cinematografica tutta sua, nell’onirico e nella realtà. Ogni minuto è permeato di senso, di visione, di una chiara presa di posizione estetica e anche etica (ma mai moralista): due esseri umani feriti – una nell’animo, l’altro nel corpo – trovano in un altro mondo, quello dell’inconscio, una vicinanza che non hanno nella realtà, dove si forzano a viverla, condizionati da quei loro animali guida che compaiono nei loro sogni. Proprio loro, che gli animali li macellano. Giochi di simboli, metafore e di emotività compresse pulsano dentro un film freddo come il bianco che giganteggia nell’immagine, come l’algida presenza della bellissima protagonista, come il braccio devitalizzato di lui. La Enyedi cuce questo lungometraggio con una consapevolezza e una saldezza di mano e di sguardo a tratti sconvolgente, ricordandoci che non c’è nulla di più difficile, da vivere, che vedere i propri sogni realizzati.
“Il ragazzo invisibile – Seconda Generazione “ Voto: 7,5
Dio ci conservi sempre Gabriele Salvatores, un Oscar che ha scommesso sempre la propria carriera sul tavolo della curiosità come agli esordi di quel magnifico, libero, destabilizzante Teatro dell’Elfo. Senza inseguire mai il facile successo ma una ricerca costante e innovativa, lavorando sull’immagine e sui generi come nessuno dalle nostre parti. Ora si dedica al suo primo sequel – ma è un’opera allo stesso tempo indipendente e legata al primo capitolo – dopo aver cercato la riuscitissima impresa (insieme a Indigo e a quel team di sceneggiatori che una piccola rivoluzione sul piccolo e grande schermo l’han portata: parliamo di Ludovoca Rampoldi, Alessandro Fabbri e Stefano Sardo) di fare un film italiano sui supereroi. Che non rinuncia a nulla dell’immaginario che conosciamo, dagli effetti speciali ai superpoteri che danno superproblemi, superresponsabilità e pure superpsicotici (oltre che superdolori). Si permette anche di avvicinare forse persino troppo universi ben conosciuti (gli Speciali assomigliano ai giovani X-Men; a un certo punto si parla di “lato oscuro”) ma poi conquista una sua autonomia, una sua forza, un proprio mondo dove il carisma giovane e solo apparentemente acerbo, inizialmente, di Ludovico Girardello e Galatea Bellugi, si fa spazio e cresce. Perché qua non abbiamo l’adolescenza di un Peter Parker, sfrontata e ironica, ma quella sofferta di due outsider. Perché Salvatores sa che per superare quell’età, bisogna essere supereroi veri. Non siamo dalle parti di Jeeg Robot ma di una Marvel d’autore, che dentro ha pure i 400 colpi. La forza di questo nuovo passo nella carriera di Salvatores sta nel costruire una narrazione orizzontale e verticale senza depotenziare l’una a scapito dell’altra, di rischiare su facce sconosciute e su altre che ricordavamo, colpevolmente, poco (Ksenia Rappoport, ma non solo). C’è rigore e passione ne Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, che paga l’assenza dell’effetto sorpresa e quindi trova, nel suo essere più completo e potente del primo capitolo, una grandezza ulteriore. Michele Silenzi, il Doinel dei supereroi, avrà lunga vita. E noi, come spettatori, abbiamo una responsabilità: se vogliamo un cinema italiano diverso e coraggioso, un’industria ambiziosa e produttori e registi che non si chiudano in due camere e cucina di Prati, allora dobbiamo puntare su film e cineasti che abbiano una visione e un orizzonte senza limiti. Come Salvatores, come Indigo, come la saga de Il ragazzo invisibile.
“Vi presento Christopher Robin” Voto: 7
Ormai è un sottogenere. Il biopic di una storia che ha cambiato i connotati emotivi del mondo – che sia Mary Poppins, Il canto di Natale o appunto Winnie the Pooh – attraverso le esistenze di chi ne ha creato le icone, in mezzo al dolore individuale che ha portato a una felicità condivisa e collettiva. Pochi sanno che dietro l’orso più adorabile del mondo, arrivato dopo una guerra atroce a ridare l’innocenza a un’umanità devastata dagli incubi bellici, c’era una famiglia. Un padre – un anaffettivo, freddo, carismatico Domhnall Gleeson -, commediante brillante e veterano traumatizzato, una madre affascinante e anestetizzata dall’attesa di lui (Margot Robbie è più brava che bella, facciamocene una ragione, anche se sembra impossibile). E un figlio, Christopher Robin – ma a casa è solo Billy Moon – che rompe la coltre di ghiaccio di A.A. Milne, che cerca un’ode, un libro contro la guerra e trova grazie a lui una foresta abitata da giocattoli di pezza. Ne scrive, di quel gruppo che fa parte dell’infanzia di tutti noi, mentre gioca e conosce quel piccolo grande uomo che lo porta fuori dalle sue ossessioni. E non lo ripaga di quel miracolo: ottiene la fama con il loro mondo donato agli altri, regala felicità a tutti ma non al suo ragazzo, che ne è depredato e che rifiuterà quell’orso per lui maledetto, cercando di trovare se stesso laddove tutti si perdono. Per poi insegnarci cos’è la vita, la vera bontà, l’essere uomini veri. Simon Curtis ha in mano una storia così potente e toccante che se ne fa guidare, la impreziosisce con due attori raffinati e capaci di domare due caratterizzazioni non facili e con Will Tilston e Alex Lawther che danno vita a un bimbo che non voleva diventare un simbolo e quindi bersaglio delle speranze, delle isterie e delle frustrazioni altrui, ma che voleva solo vivere. Ed essere amato, non idolatrato. E il lieto fine, qua, è ben più profondo di una consolazione catartica. State sicuri che Winnie the Pooh non lo leggerete più nello stesso modo, dopo quest’opera.
“Jumanji – Benvenuti nella giungla” Voto: 6,5
Che dire di Jumanji? Che non è un sequel e non è un remake, ma forse è comunque entrambi. Che non si può sostituire Robin Williams e che il tempo e la nostalgia l’hanno reso migliore di quello che era. E che Jake Kasdan capisce che non deve guardare al passato, se non per la struttura, ma al presente, per capire come quella storia potrebbe essere amata qui e ora. Il segreto di un filmetto godibile è tutto in un paio di ideuzze di sceneggiatura e in quel Dwayne Johnson che da wrestler è divenuto attore e che ora punta alla Casa Bianca. A questo Arnold Schwarzenegger degli anni 2000 che ha muscoli da colosso e un sorriso da bimbo, che ha tanta forza quanta autoironia. E che qui, come interprete, fa un salto in avanti, perché deve trovare in sé un nerd timido e fifone che indossa il suo corpo. Ed è quel fascino bollente e irresistibile che conquista in questo Jumanji, per il resto capace di intrattenere senza troppe pretese, ma neanche poche, di sfruttare il giusto Jack Black e di trovare in Karen Gillian una partner femminile non banale. Il resto lo fa The Rock, appunto, che se li carica in spalla e sfrutta i binari costruiti da Kasdan per arrivare in fondo e conquistare grandi e piccini. E non era quello che in fondo fece anche il compianto Williams? Ci sono sempre almeno due strade per arrivare dove si vuole.
“Tutti i soldi del mondo” Voto: 3
Ecco, hanno fatto un gran favore a Kevin Spacey. Eh sì, perché per punirlo delle sue malefatte, toccava lasciarlo in uno dei peggiori stra(s)cult di Ridley Scott che prende la storia vera dell’erede sedicenne dell’impero Getty, rapito dall’Anonima Sequestri in Italia, nel 1973, per farla diventare una pessima docufiction. In cui è proprio il sostituto dell’attore cancellato non solo dai titoli ma da tutto il lungometraggio, Christopher Plummer, a giganteggiare. Ma in un altro film, di fatto, il biopic del bastardissimo Scrooge del XX secolo, John Paul Getty, che sarebbe stato infinitamente più interessante di questo melodramma da operetta e che trova invece pochissimo respiro. Però non smetti mai di chiederti come abbiano fatto a girare così tante scene in un paio di settimane: segno che Plummer è un grandissimo interprete e che probabilmente Tutti i soldi del mondo è un pessimo film che poteva accoglierlo e valorizzarlo, per contrasto.
Il resto è un’Italia che è imbarazzante nella descrizione stereotipata di Scott, un Wahlberg che si salva, come Michelle Williams, solo perché sono bravi e diligenti, ma rimanendo comunque vittime di due personaggi scritti con l’accetta e una messa in scena che passa dall’imbarazzante all’irritante. Persino nella buona ma poco credibile resa di costumi e scenografie, nella grana di un’immagine che acuisce, nel suo finto realismo, la totale stonatura di ogni scena, di ogni dialogo, in cui tutti fanno un film diverso. Scott, dobbiamo dircelo, ha fatto film più grandi del suo talento e ora che è in una parabola discendente e senile, tutto ciò è fin troppo chiaro. E doloroso, visto che pur non essendo un maestro, ha regalato alla storia grandi capolavori. Fermiamolo, finché siamo in tempo.