Ecco, le classifiche dei dischi migliori dell’anno sono l’ideale per fare scattare la polemica: “Cosa manca?”. Sì, esatto, le donne. E questo è un punto, ma ce n’è un altro. Prendiamo la top 20 dei singoli. Che ambizioni hanno le donne nelle migliori canzoni italiane dell’anno? Che cosa vogliono? Che pensano? O più banalmente: cosa fanno? La risposta è semplice: niente.
Per i film esiste il famoso Bechdel test. Per chi non lo conosce, è un compendio di tre requisiti minimi che dovrebbe avere una pellicola per una correttezza di genere: che tra i personaggi ci siano almeno due donne di cui si conosce il nome, che le due donne parlino almeno una volta tra di loro, che non parlino di uomini. Sarebbe complicato da applicare a una canzone, ma possiamo escogitare un test ancora più elementare: che una donna menzionata in un pezzo svolga una attività qualsiasi, a parte farsi di spritz e di selfie (no, non è vero, in un caso è effettivamente impegnata e le viene dato atto che succhia non male – Lamborghini –, in un altro ci si auspica che diventi la propria babysitter – Habibi).
Difficile trovare un’attività svolta da una donna nelle canzoni, al di là di spritz e selfie
C’è da dire che pure gli uomini dei singoli migliori del 2017 non stanno lì a spaccarsi la schiena (“Che figata andare al mare quando gli altri lavorano” – Stavo pensando a te), ma almeno fanno i soldi. Vogliono diventare famosi, vogliono diventare ricchi, vogliono la Lamborghini… si applicano, e ci riescono. Una parabola di un didascalismo speculare alle rivendicazioni sindacali sull’articolo 18 ma, insomma, diciamo che accetto il canone. La questione non è tanto il sessismo intrinseco alla scena rap, le troie usate tipo i carabinieri nelle barzellette per non guastare la tradizione (che poi, appunto, se fossero veramente troie avrebbero anche un lavoro e un introito, e nessuno pretende che siano “ottimiste e di sinistra”), quanto un mondo ideale dove – terminato il corso base in Riscatto Sociale – l’aspirazione massima è non fare più un cazzo.
Se, nella migliore delle ipotesi, potevamo ritrovarci in una visione à la Bifo di liberazione dal lavoro, nella realtà sembra di stare dentro a un angosciante scenario da resort balneare per giovani pensionati benestanti, forzati del relax, dediti a sorseggiare cocktail già passati di moda (ancora Moscow Mule). Il mare è onnipresente in questi pezzi – certo non è una novità nella musica italiana –, ma lo struggimento di un tempo, sospeso tra malinconia e leggerezza, è rimpiazzato da una scimmia vacanziera talmente ansiogena da tradire un sottofondo di depressione acuta. Accanto a un diktat di puro fancazzismo marittimo (“Sotto il sole, sotto il sole, di Riccione, di Riccione”), permane un certo romanticismo: “Vorrei portarti al mare/ anzi, portarti il mare” (La musica non c’è) o, in versione partenopea, “Ballammo ‘nfaccia ‘o mar’/ Te port’ addo’ vuo ‘tu” (Tu t’e scurdat e’ me); e comunque, intendiamoci, è sempre lui a portare lei da qualche parte – sia mai una donna alla guida! –, tranne quando c’è bisogno di una specie di badante: “Stasera non guido/ mi scasso e guiderai tu” (El Party).
E se non c’è il mare pazienza, può andare bene pure un fiume per l’inanità della vita (“Distendo le mie gambe qui seduto in riva all’argine” – Un temporale), o una piscina (abdicato a quello politico, ci si può concedere una botta di attivismo sportivo: “Farò una vasca a dorso/ fra’ c’ho l’estate addosso” – Estate dimmerda), o semplicemente si può restare in salotto, coi piedi in ammollo (Tran Tran). Manca solo un giretto alle terme, per sballarsi di acqua termale.