In un mare di memorie spesso sbiadite legate agli anni Ottanta, talvolta mi stupisco nel ritrovare ricordi ancora vividi, immacolati. L’immagine di Loredana Bertè fasciata in un succinto abito di pelle nera in tutta la sua sfrontata bellezza felina, per esempio, ancora ce l’ho davanti agli occhi in tutto il suo conturbante splendore. L’anno doveva essere il 1984, forse era una puntata di Discoring, magari il Festivalbar. Poco importa, non è questo il punto.
Una cosa è certa: quello sguardo impertinente, quelle movenze flessuose e provocanti, così aliene rispetto al quasi sempre ingessato panorama canoro italiano di quel periodo, non avrebbero potuto lasciare indifferente un solo uomo; figuriamoci un imberbe tredicenne che normalmente era solito sbizzarrire la propria immaginazione – diciamo così – sfogliando i cataloghi del Postal Market o al massimo, quando la fortuna gli diceva bene, una copia di Blitz passatagli da un amico più grande.
Provocava, Loredana, e lo faceva divinamente. Ma soprattutto cantava con quel timbro inconfondibile, ruvido come il suo carattere e la sua sensualità. La canzone era caratterizzata da un robusto arrangiamento chitarristico che mi piacque immediatamente, ma ciò che più mi catturò furono alcuni passaggi del testo: “appena si alza il mare gli uomini senza idee per primi vanno a fondo“, “Non credere, no, non metterti a sognare lontane isole che non esistono“. Pur non afferrando pienamente il loro significato, quelle parole esercitavano una profonda suggestione su di me. Quella canzone si intitolava Ragazzo Mio e all’epoca non sapevo che fosse uno dei brani più conosciuti di Luigi Tenco.
Lo avrei scoperto solo qualche anno dopo, poi sarebbero arrivate Lontano Lontano, Un Giorno Dopo l’Altro, Io Sì, Angela, Vedrai Vedrai, Ciao Amore Ciao, Se Stasera Sono Qui, Io Sono Uno, Se Potessi Amore Mio, Ognuno è Libero. Un canzoniere da togliere il fiato.
A pensarci bene, la quantità di capolavori che Tenco ha consegnato alla storia della musica italiana in soli cinque anni di carriera è inaudita. Canzoni profonde, cariche di introspezione, disillusione, critica sociale e talvolta di feroce sarcasmo. Sassofonista di talento, Luigi veniva dal jazz, era un musicista prima ancora che un paroliere, e da musicista componeva i suoi pezzi così moderni durante quei primi anni Sessanta che lo videro muovere i suoi primi passi nel mondo della musica leggera.
La sua opera ha profondamente influenzato le successive generazioni di cantautori, arrivando fino ai giorni nostri; ancora oggi nelle canzoni di validissimi artisti come Brunori non è raro riconoscere quelle suggestioni tipiche dell’opera dell’artista genovese. Eppure la sensazione è che oggi il suo nome – nonostante le rassegne e le molte iniziative a lui dedicate – sia stato un po’ dimenticato, soprattutto dalle giovani generazioni.
Certo, ogni anno, a fine gennaio, la maggioranza dei media si ricorda di Luigi per celebrare l’anniversario della sua morte, almeno ufficialmente; la realtà è che la ricorrenza altro non è che uno stridulo ululare di sciacalli, un comodo ed ipocrita pretesto per rimestare nel torbido e riproporre quell’interrogativo che ormai è storia chiusa anche per la sua famiglia: in quella stanza d’albergo a Sanremo, la notte del 27 gennaio 1967, si consumò un suicidio oppure un omicidio? Come se dopo mezzo secolo scoprire quale mano impugnò la pistola che lo strappò alla vita potesse cambiare qualcosa. Sulla vita di Tenco – e sulla sua morte – tanto, troppo inutile inchiostro è stato versato. E tanto altro ancora, possiamo esserne certi, se ne verserà fingendo di ignorare che le parole definitive sulla sua troppo breve esistenza sono scolpite nella canzone Preghiera In Gennaio che Fabrizio De André scrisse subito dopo la scomparsa del cantautore:
Signori benpensanti
spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo
di quelle labbra smorte
che all’odio e all’ignoranza
preferirono la morte.
Anche le nostre parole, pertanto, in fondo risultano superflue; meglio ritornare a quel silenzio che Luigi tanto amava non prima di avere rivolto una preghiera, quasi certamente destinata a restare inascoltata, agli sciacalli poc’anzi citati: rinfoderate i vostri artigli, lasciate che Tenco possa finalmente riposare in pace. Lasciate che a parlare di lui e per lui siano le sue canzoni. Noi non potremo mai fare di meglio.