Perché 'The Crown' è la serie più rivoluzionaria che c'è | Rolling Stone Italia
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Perché ‘The Crown’ è la serie più rivoluzionaria che c’è

Se Nolan e Wright ci hanno offerto le due sponde della resa e la fuga in 'Dunkirk' e 'L’ora più buia', è impossibile non parlare del successo granitico e crescente di una serie che dopo una prima stagione straordinaria ha trovato conferma nella seconda, più matura e complessa.

The Crown

A memoria di cinefilo e telefilo è difficile ricordare un periodo in cui la Gran Bretagna sia stata visivamente più nostalgica, sul piccolo e grande schermo; un tempo in cui sia stata più dedita alla cura dei propri miti degli ultimi mesi, tra cinema e tv. Nel pieno di una Brexit che ha riscritto la storia europea la perfida Albione pensa di mettersi in vetrina ricordando le sue icone, i suoi miti, offrendoci la regina e il principe consorte (eh sì, Churchill da quelle parti, come De Gaulle in Francia, fu monarca più che capo del governo) che più nudi non si può.

Espongono i loro leader fragili e le loro disfatte trionfali sull’onda emotiva aperta, in questi anni, dal bello e furbissimo Il discorso del re, decidendo di ricordarci che se è pur vero che con l’improbabile populista Farage e l’inetto Cameron (quante somiglianze con il Chamberlain della Seconda Guerra Mondiale o l’Eden che perse Suez e la faccia contro Nasser) hanno provveduto a demolire l’Europa moderna, un tempo furono custodi stoici del Vecchio Mondo e della democrazia. E noi siamo lì a pendere ancora dalle labbra di Winston ed Elisabetta, perché in fondo, nel loro essere colossi dai piedi d’argilla furono (e sono) grandi testimoni delle loro, ma anche delle nostre contraddizioni.

Sarebbe interessante capire quale meccanismo psicologico spinga quell’impero ormai sbiadito ad andare in controtendenza rispetto alle decisioni dei propri politici e noi, sempre sudditi, ad ammirarli, ma è un fatto che ciò che racconta il potere britannico eserciti su di noi un fascino irresistibile.

Se Nolan e Wright ci hanno offerto le due sponde della resa e la fuga provvidenziali di Dunkerque in Dunkirk e L’ora più buia, l’uno celebrando i soldati e l’altro il comandante in capo, se Michael Caine ci ha portato nella Swinging London con un documentario meraviglioso e ribelle come My Generation a ricordarci che dopo essere stata la capitale della democrazia la città sul Tamigi lo è stata anche della creatività, è impossibile non parlare del successo granitico e crescente di una serie come The Crown che dopo una prima stagione straordinaria ha trovato conferma nella seconda, più matura e complessa, e che si appresta alla rivoluzione, nel cast (cambieranno tutti gli attori) e nella modalità di racconto, per la terza e la quarta.

The Crown, che pure sembra non trovare l’assenso, in quel silenzio più volte celebrato nella serie, della regina che racconta, è un’opera grandiosa per le ambizioni artistiche e politiche che porta con sé. Per stessa ammissione della protagonista che confessa più volte le sue mancanze culturali e strategiche, è un grandioso investimento in una storia su cui nessuno avrebbe puntato. Già, perché al centro di tutto c’è quell’Elisabetta che al vigliacco e inadeguato Eden dà una lezione di realpolitik nel momento del commiato: “a volte non fare nulla è la cosa giusta, ma chi non fa nulla non scrive la storia”. E come in un dramma cechoviano, The Crown riesce nel miracolo di costruire in sé la magnifica contraddizione di chi, per resistenza e intelligenza del potere, nell’inazione ha trovato il modo di brillare, invece. Ferendo con quel ghiaccio bollente che nascondeva le persone più care, mantenendo l’autorevolezza di un’istituzione decadente e anacronistica e tessendo costantemente una tela di Penelope tra il passato, le tradizioni e aperture timide alla modernità.

Claire Foy, splendida attrice che si è presa sulle spalle un personaggio quasi impossibile, da cesellare nei particolari più che nelle azioni, nelle decisioni storiche o nei monologhi aforistici, è sicuramente una delle cause del successo clamoroso di una narrazione che, pur andando contro le regole attuali della serialità, ha un successo clamoroso quanto meritato. Non c’è mai spazio, in questa serie, per la retorica della donna sola al comando, per la ricerca della grandezza dietro alla corona ma piuttosto un costante ossessivo understatement che mai è debolezza. Nè di chi racconta e ancor meno di chi viene raccontato. Come se sapesse che chiunque, spettatore compreso, capirà il suo valore solo e sempre fuori tempo massimo.

E’ un affresco innanzitutto emotivo The Crown – soprattutto in questa stagione – che si incastona negli schemi del potere, tanto che ognuno trova la sua luce, il modo di brillare: John Lithgow, nella prima, è stato un Churchill grandioso e vero (anche più di Oldman ne L’ora più buia, ammettiamolo) così come a Jared Harris, Eileen Atkins e Victoria Hamilton sono bastate poche pennellate per costruire la cornice in cui Elisabetta e Filippo (Matt Smith, eccellente in quest’uomo tenace e spezzato, peccatore sensibile e infantile che rifugge la caricatura che la Storia ha fatto del suo principe consorte) hanno poi trovato il loro difficile equilibrio. Per non parlare di Vanessa Kirby, una Margaret ostinata e contraria di cui è difficile non innamorarsi. Senza mai, davvero, parteggiare per lei.

The Crown, in un immaginario collettivo in cui si cercano gli antieroi mefistofelici – da Gomorra ad House of Cards, è tutta una celebrazione del Male (e del “male”, del maschio) – ci offre l’epica, l’etica e l’estetica di chi si sente depositario di un’eredità a tal punto da negare a se stessa la felicità a favore della fedeltà a un’Idea in cui forse non voleva neanche credere. Di una donna che non cerca modelli maschili, di una regina che non corteggia il popolo, di un modello che è antitetico a ciò che qui e ora attecchisce. Sarà interessante capire come e quanto questa serie affronterà le dure prove che il lungo regno di Elisabetta ha affrontato e di come ancor di più ha vissuto quelle più meschine.

In queste due stagioni, inevitabilmente, la Storia con la S maiuscola ha contribuito a creare dei binari di sceneggiatura solidissimi dove Peter Morgan – per intenderci lo sceneggiatore di Frost/Nixon, de L’altra donna del re, di The Queen e de I due presidenti – ha saputo in qualche modo incastonare una donna che ha saputo costruire nei vuoti dei suoi sudditi e forse persino della sua anima un mito incontrastato e sorprendente, soprattutto nella capacità di rialzarsi quando appare ormai in declino. E non il mito andreottiano o papale sorrentiniano – dove la mediocrità diventa grandiosa, l’assenza è virtù e serve la malvagità complessata di menti che mai capisci se geniali o solo contorte per infilarsi nelle crepe del potere -, né quello più cialtrone di molti altri biopic ma quello quotidiano, quasi religioso di un ruolo che ha l’obbligo di essere passivo-aggressivo, di imporsi senza mai esporsi. Morgan, però, ha trovato la forza di non rinunciare a un ritratto personale della regina, di una donna innanzitutto che non ha rinunciato alla sua identità e persino a una forma molto personale di libertà (pensate solo a quei cappelli e ai colori dei suoi vestiti o al ritiro dalla vita pubblica dell’amato, scelto e allo stesso tempo sopportato Filippo).

Ed è in fondo il segreto di The Crown che in un recinto ben delimitato e decisamente angusto trova la sua indipendenza rispetto a ogni prodotto (che, va detto, è la grandezza delle serie più importanti di Netflix): nei ritmi, nel tipo di recitazione, in una regia cinematografica e nei suoi equilibri narrativi e visivi. Tanto che alla fine capisci che è lì che devi guardare per capire perché la Regina e la Gran Bretagna avranno sempre una lunga, gattopardesca vita. Ben oltre qualsiasi Brexit.

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