Il 23 gennaio, pochi giorni dopo l’uscita del suo ultimo album Rockstar, Sfera Ebbasta annunciava sui social media un record assoluto: dopo aver disintegrato la classifica italiana (virale e non), era lui il primo italiano a comparire nella Top 100 mondiale di Spotify. «Lo scriverei a lettere tutte maiuscole, “mai successo in Italia”», ha detto. «Io punto ad essere competitivo in senso internazionale». Il risultato è impressionante, ma non dipende solo dalla qualità del suo album, o dal fanatismo del suo pubblico, e nemmeno dai featuring della versione internazionale (Quavo, Tinie Tempah). Il record di Sfera deve molto alla nuova giovinezza della nostra musica, di nuovo protagonista assoluta degli ascolti del pubblico italiano, anche quello generalista, Matteo Renzi compreso.
“L’anno passato non è stato dei musicisti, ma dei parolieri”, ha scritto Alberto Piccinini nel suo editoriale riassuntivo di quello che è successo nel 2017, un anno in cui il paese si è scoperto alla ricerca di parole in cui riconoscersi, di un racconto non importato dall’estero. E guardando le classifiche Spotify dei principali mercati musicali del mondo, è facile arrivare alla stessa conclusione. Mentre scrivo – è il pomeriggio di San Valentino – l’Italia, insieme al Brasile, è l’unico paese ad avere in Top 10 solo artisti locali, e per trovare un nome internazionale bisogna scendere alla 23esima posizione, dove appare Leave a light on di Tom Walker. Praticamente assenti anche le donne: nelle prime 50 posizioni troviamo solo Annalisa, Elettra Lamborghini e Noemi.
All’estremo opposto c’è l’Australia, con 10 artisti internazionali in tutte le prime posizioni, poi il Canada. Qui sotto trovate il grafico riassuntivo della situazione, ma bisogna fare alcune precisazioni. La prima riguarda gli Stati Uniti: Drake e The Weeknd sono considerati come artisti internazionali – sono canadesi -, ma è un dato da prendere con le pinze, perché sono chiaramente frutto del mercato discografico statunitense. Poi il Giappone: nella Top 10 troviamo 6 artisti locali e 4 internazionali, ma c’è da specificare che alcuni mainstream act non sono sul servizio di streaming (le etichette se li tengono stretti o li dirottano su piattaforme proprietarie), e che i Giapponesi preferiscono utilizzare YouTube o i cari vecchi CD, spesso noleggiati in uno dei 6mila negozi di dischi sparsi per il paese.
Un’altra possibile chiave di lettura – prendetela come un’impressione, perché non c’è modo di trasformarla in numeri – è quella legata alla padronanza dell’inglese. Noi italiani, così come i giapponesi, non siamo famosi certo per il bilinguismo, e c’è un abisso con il livello (per esempio) dei paesi scandinavi, dove in classifica la proporzione tra artisti locali e internazionali è quasi opposta alla nostra, nonostante in quegli stessi paesi (soprattutto in Svezia) ci sia una scena locale fertilissima e già esportata in tutto il mondo. In ogni caso, guardare i dati conferma ancora una volta l’unicità del momento storico che sta vivendo la nostra musica, e che vi abbiamo raccontato negli editoriali pubblicati sul numero di gennaio e disponibili sul sito. C’è un’aria nuova, contagiosa, e il risultato di Sfera è un altro segno dei tempi, una buona notizia. Viene da chiedersi quale sarà la prossima.