“Da un grande potere derivano grandi responsabilità” diceva Ben Parker, lo zio di Spiderman, al nipote. E deve essere esattamente quello che hanno pensato Ryan Coogler (che ha dato nuova vita al franchise di Rocky con Creed) e la sua crew quando hanno deciso di portare Black Panther sul grande schermo. Sì, perché Stan Lee e Jack Kirby avevano creato il character per i fumetti negli anni ’60 e ci è voluto oltre mezzo secolo per vedere il primo supereroe di colore targato Marvel al cinema.
Ma ne è valsa la pena: il film su Pantera Nera è lontano anni luce dall’essere semplicemente un altro cinecomic. E questo grazie al fatto che il regista, gli attori, gli sceneggiatori, tutte le persone che hanno lavorato al film fino ai tecnici degli effetti speciali, hanno capito di avere un grande potere, anzi, una grande responsabilità: quella di lasciare il segno, di fare la storia.
Non scriverò che Black Panther è il miglior cinecomic di sempre (anche se Black Panther è il miglior cinecomic di sempre), ultimamente la frase è un tantino inflazionata. Meglio far passare un altro concetto: é senza dubbio il film di cui c’era bisogno, quello giusto al momento giusto. Perché inchioda la fantasia ad una realtà che più stringente non si può, a temi che non è possibile immaginare più socialmente rilevanti, ma senza nemmeno l’ombra di retorica.
Black Panther è scritto e diretto magnificamente, è divertentissimo ed elettrizzante, pieno zeppo della miglior azione sulla piazza (la scena del combattimento rituale alla cascata è un capolavoro di computer graphic e coreografia). E questo è il marchio di fabbrica Marvel, of course. Ma quanti film di supereroi ci sono che prendono di petto questioni etniche e di genere, schiacciando stereotipi sul colore della pelle, mettendo al centro la coscienza razziale e l’orgoglio, la ricerca e la celebrazioni delle radici nere, in un’ottica di costruzione del futuro e, soprattutto, alla faccia di Trump?
“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”, dicevamo: nessuno lo sa meglio del principe T’Challa che, dopo la morte del padre eredita il regno di Wakanda, stato africano di finzione che, in seguito alla scoperta di un prezioso metallo (il vibranio), ha coltivato segretamente la civiltà più avanzata del mondo. T’Challa ne è insieme il sovrano e il protettore, grazie alla magica erba a forma di cuore, che gli dona una forza sovrumana trasformandolo in Black Panther, e alla tuta progettata dalla sorella, un genietto della tecnologia. La ricchezza e le possibilità nascoste del Paese attirano nemici senza scrupoli e fanno riemergere dal passato un potente nemico.
“Da un grande potere derivano grandi responsabilità” è anche la problematica con cui si deve confrontare il Wakanda stesso: quali sono i suoi doveri nei confronti del mondo, nei confronti dei fratelli che stanno combattendo e spesso perdono anche la vita per i loro diritti? Per questo dove gli altri cinecomic Marvel hanno delle venature pulp, Black Panther rivela delle sfumature quasi shakespeariane nel suo protagonista e non solo.
È impossibile immaginare qualcun altro se non Chadwick Boseman nel ruolo di T’Challa/Black Panther per la naturalezza, il carisma e l’intensità con cui affronta questioni di stato e scazzottate. Ma tutto il cast, quasi interamente di colore è straordinario: dal terribile e umanissimo cattivo di Michael B. Jordan (il protagonista di Creed) a Daniel Kaluuya (quello di Get Out) nei panni dell’amico del protagonista e capo della sua sicurezza, fino al mistico guru spirituale interpretato da Forest Whitaker.
E poi le donne, combattenti straordinariamente belle e fiere come il premio Oscar Lupita Nyong’o, ex fidanzata di T’Challa e agente segreto del Paese in missione, oppure Danai Gurira (The Walking Dead), occhi di fuoco a capo dell’esercito tutto al femminile di forze speciali dello stato, o Angela Bassett, regale madre del principe, e Letitia Wright, intelligentissima e pungente sorella del protagonista.
Oltre ai sempre grandi Martin Freeman e Andy Serkis, c’è un altro straordinario personaggio nel film: il Wakanda, un luogo squisitamente in equilibrio tra l’omaggio alla tradizione africana, alle sue tribù, alle sue regole, alla sua mitologia, al suo orgoglio, e lo sguardo al futuro. Un vero e proprio miracolo visivo.
PS. La colonna sonora è a cura di Kendrick Lamar, il miglior rapper della sua generazione, che a proposito di potere e responsabilità ha pensato bene di alzare così tanto l’asticella che la sua soundtrack, tra hip-hop, R&B, blues e influenze africane, potrebbe piazzarsi tranquillamente tra i migliori album di questo inizio d’anno.