Negli anni '80 la vita era più semplice delle canzoni | Rolling Stone Italia
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Negli anni ’80 la vita era più semplice delle canzoni

Non potevamo comprarci riviste specializzate, della politica non ci importava, tanto vinceva sempre la DC.

Negli anni ’80 la vita era più semplice delle canzoni

Sono nato in una cittadina collinare del Friuli orientale alla fine degli anni sessanta. Avevamo il destino segnato, alcuni erano figli di contadini, altri di operai, tutti figli di altri contadini e di altri operai, che avrebbero lavorato le vigne o respirato acidi in uno stabilimento che produceva finta pelle. Non avevamo un cazzo, si mangiava pane e speranza, ci si bagnava al fiume d’estate, ci si scaldava con il cherosene d’inverno.

C’era la musica. Per il mio tredicesimo compleanno mia madre mi regalò The Wall dei Pink Floyd, Back in Black degli AC/DC, Double Fantasy di Lennon-Ono, Le mie Strade di Gianni Togni, Abacab dei Genesis, tutte taroccate e prese da un vucumprà il venerdì al mercato del paese. Abacab non andava e l’ho scambiato truffaldinamente l’anno dopo con Denim and Leather dei Saxon che non andava truffaldinamente neanche quello.

Frequentavamo feste dove si entrava di scamuffo e c’era un deejay improvvisato, spesso il padrone di casa, che metteva quello che aveva. Un Capodanno abbiamo ballato tutta la notte l’unico disco che c’era, Do you really want to hurt me dei Culture Club, senza nemmeno cagare il lato b, non c’è mai stato niente di storico da poter revisionare nel futuro, né a quelle feste né mai. Primo concerto visto con un familiare i Dick Dick in piazza XXIV Maggio, che sul palco menavano come delle bestie, primo con i compagni di classe Guccini, alla Cantina Sociale, tre ore, durante La Locomotiva ho fatto il mio pugno d’esordio, ma rapido, come diceva Gaber, primo concerto solitario Martin Jenkins, organizzato dall’ARCI, al Comunale, in galleria, c’era gente che fumava, ho scoperto la mia prima canna, primo concerto con un’amica Fairport Conventions, con accredito stampa falso a nome Zichichi, in alcuni momenti mi sono rotto i coglioni. Frequentavo il negozio di strumenti musicali dei fratelli Silvestri in via Matteotti così potevo suonare quello che non mi potevo permettere.

Dopo le vendemmie decisi di chiedere uno sconto per una imitazione giapponese della Stratoscaster, la Masaaki, ma non avevo calcolato l’acquisto dell’amplificatore, dopo brevi contrattazioni sono uscito con una Eko color porpora e un valvolare Fender100 watt in affitto per un mese, l’ho portato a casa, ho suonato tutto il giorno e tutta la notte fino a svenire, fuori pioveva. Al mattino non ho trovato più niente, mio nonno aveva fatto una permuta con un Ciao Piaggio rosso con i cerchi in lega neri, “ preferisco che tu vada a schiantarti”, mi disse, “piuttosto che sentire tutto quel casino”.

Due giorni dopo mi sono rotto il polso e lussato il radio in Pradis, vicino al confine con la Yugo. Non potevamo comprarci riviste specializzate, i soldi che avevamo li investivamo in chili di Caballero riciclati, qualche volte le Ore, le tempeste ormonali andavano dominate, della politica non ci importava, tanto vinceva sempre la DC. Quasi nessuno aveva un impianto stereo, si duplicava dalla radio in mono, anche Baglioni. Non sapevo avesse problemi con la critica a quel tempo, avevo come tutti altri cazzi, tipo cercare di non diventare un operaio turnista alla Tec Friuli, o un muratore.

Quando potevo passavo al parco dove un ragazzo più grande che suonava jazz fusion ci raccontava del suo stage a New York con Billy Cobham, mentre un tipo piemontese si vantava di avere chiamato così il suo cane e si fumava una Camel in sei. Si parlava di Zappa. Avessimo potuto trombare dentro fumose aule universitarie l’avremmo fatto, invece un paio di anni dopo ci hanno mandato a fare i militari in montagna, poi qualcuno si è fidanzato, qualcuno se n’è andato, altri hanno fatto strada. Le cose della vita spesso sono più semplici di una canzone, si parte da A, si arriva a B, senza pensare a stronzate di qualsiasi tipo, si parte da A, si arriva a B, non ci si aspetta un granché.

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