3,6 milioni di «lavoratori autonomi e senza dipendenti» tra i 15 e i 74 anni, stando ai dati Eurostat riferiti al 2015: nel nostro Paese circa il 14% della popolazione attiva è freelance, contro il 10% della media europea. Dentro questo calderone ci sono giornalisti, pubblicitari, artisti, fotografi, consulenti, designer, traduttori, e in generale tutti coloro che svolgono in prima persona un lavoro in modo autonomo, che non hanno vincoli di subordinazione, flessibili per necessità, retribuiti in media meno dei colleghi dipendenti per una malsana prassi fin troppo consolidata.
Il mercato del lavoro d’altronde è mutato in maniera radicale, il “posto fisso” – da agognato traguardo – per molti è diventato più una costrizione, e le aziende, checché se ne scriva, sono sempre meno propense ad assumere: in un’ottica darwiniana, la lotta per la sopravvivenza si combatte mettendosi in proprio, facendosi un bel segno della croce e augurandosi che il proprio talento e la propria intraprendenza non vengano mai meno. Secondo la ricerca The Future of Workforce, realizzata da Ubs in collaborazione con The Future Laboratory, il futuro riserva ai Millennials un’unica, grande, certezza: da qui a breve, il 75% dei lavoratori dirà addio all’ufficio tradizionale, e tale ritrovata flessibilità sarà sia una condizione fondamentale per le aziende, sia un fattore positivo per coloro inclini a «preferire una presenza effettiva a una presenza costante».
Addio scrivanie, addio orari prestabiliti, addio cartellino: il report patrocinato dal colosso bancario svizzero decanta in lungo e in largo le enormi opportunità offerte da «questo nuovo mondo coraggioso», e sfogliando le sue pagine colme di dati si ha la tentazione di pensare ai freelance come all’esercito di ribelli di Braveheart. Con estremo pathos e valore, mi sono unita alle armate degli autonomi tre anni fa, abbandonando, per scelta, una professione che odiavo e un contratto a tempo indeterminato che ogni fine mese mi garantiva una busta paga indecifrabile, dove l’unica cosa chiara era rappresentata da un netto – immutato e immutabile – nella colonna in fondo a destra.
Scrivere era da sempre il mio sogno, e appena si presentò l’occasione di coronarlo, l’agguantai al volo senza pormi problemi di sorta, finché il mio primo committente mi pose la fatidica domanda: «Hai la Partita IVA, vero?». No che non ce l’avevo, la Partita IVA, poco ci mancava non sapessi manco cosa fosse, ma il concetto «No Partita IVA, No Soldi» era abbastanza cristallino, e con la stessa perseveranza che mi spinge a struccarmi pure quando torno a casa la sera un po’ sbronza, cominciai la ricerca di uno dei grandi protagonisti di questa storia: il commercialista. Figura quasi mitologica, sfuggente e a tratti inquietante, riposi in lui tutta la mia fiducia e inesperienza, convinta che mi avrebbe salvata dal girone infernale di numeri con cui non sono mai andata d’accordo e di percentuali che – nonostante un diploma di maturità scientifica – non ho mai calcolato correttamente. Nulla di più sbagliato.
Il commercialista non è vostro padre, e il modo in cui gestisce la vostra contabilità rimane un mistero, grazie anche un sistema fiscale, quello italiano, impenetrabile quanto la successione di Fibonacci: le domande che gli porrete riceveranno risposte simili a supercazzole, e spesso vi ritroverete a fissare il vuoto di fronte a spiegazioni arzigogolate, che non dissiperanno i vostri dubbi. Non arrendetevi, perché la regola numero uno del freelance recita più o meno «che ne sappiate qualcosa di contabilità, fisco ed economia, o che siate colpevolmente ignoranti in materia, poco conta: rimboccatevi le maniche, e cercate di capirci qualcosa». I tempi del netto prestabilito in busta paga sono finiti, volenti o nolenti dovete incominciare a ragionare come se foste una piccola impresa con un figlio a carico, lo Stato, e un solo dipendente: voi. E le piccole imprese sono in grado di funzionare solo se si elimina il timore reverenziale nei confronti del proprio commercialista – «Adesso hai capito Marianna?», «No», «Ok, te lo rispiego per la terza volta» – e ci si aiuta con calcolarelapercentuale.it.
Il corollario della regola numero uno stabilisce che un freelance sia consapevole di quanto effettivamente gli entri in tasca per ogni preventivo che emette, perché «nulla è inevitabile, tranne la morte e le tasse», e troppi sono caduti sul campo di battaglia, convinti che quei 300 Euro in fattura costituissero il loro pieno guadagno. Che voi siate nel regime dei minimi – vecchi minimi, nuovi minimi, minimi vattelapesca – od ordinario, fatevi un giroconto, e per ciascun pagamento ricevuto metteteci quel 30%, 40% o 50% che lo Stato, puntuale come un cucù svizzero, verrà a chiedervi con la dichiarazione dei redditi poco prima delle vacanze estive. Vi eviterete di disdire il volo per Atene e il traghetto per Folegandros (sì, a qualcuno è capitato), ma anche di trascorrere notti insonni a piangere disperati, nel tentativo di far quadrare i conti (sì, è capitato a qualcun altro).
Qualsiasi film di guerra ha il suo cattivo per antonomasia, e il nostro non fa eccezione. Se negli Stati Uniti a un freelance viene corrisposto metà dell’importo del preventivo prima di iniziare il lavoro – perché, ehi, devi essere messo nelle condizioni per poterlo svolgere, no? – e il saldo avviene contestualmente alla consegna, in Italia il committente-predatore ha una specie di naturale avversione verso un’equa retribuzione, nonché verso il pagamento entro i tempi prestabiliti. Ovviare alla prima non è semplice, ma rifiutare proposte pagate una miseria rappresenta un imperativo categorico: in un mondo in cui la maggioranza gioca al ribasso, adattarsi non è una scelta che alla lunga offre dei benefici, se non un’autosvalutazione. I “no” che aiutano a crescere d’altronde sono pure questi, e ogni rinuncia si traduce in tempo a disposizione per cercare opportunità più appaganti, sia in senso economico, che morale. Senza contare che, per una strana legge cosmica, chi offre meno è spesso un pessimo pagatore: sebbene il Jobs Act sul lavoro autonomo approvato lo scorso maggio al Senato abbia stabilito più tutele nelle transazioni commerciali e contro i ritardi nei pagamenti – facendo diventare “abusive” le clausole che concordano termini per saldare superiori a 60 giorni dalla consegna della fattura – esistono ancora clienti che recitano la parte dei finti tonti, lasciando calare noi freelance in quella, meno simpatica, degli insistenti riscossori. Mezza giornata al mese viene dunque dedicata al «celo, celo, manca» dei bonifici e al recupero crediti, che prende un’altra piega quando il ritardatario di turno sente le parole “obbligo” e “legge” nella stessa frase, ovviamente cadendo dal pero.
Fin qui, i dolori (che non sarebbero nemmeno finiti), e le gioie? Ciò che fa da contraltare alla suddetta inenarrabile serie di sbattimenti è senza dubbio la libertà di gestire il lavoro come, dove e con i tempi che si desidera, a patto di rispettare le consegne e di amare molto le persone. O, almeno, di fingere di amarle, dato che l’equazione alla base della vita del freelance è riassumibile in «più contatti, uguale più potenziali lavori».
Tenere in gioco tutte queste palle è un’impresa, e il rischio cedimento delle proprie è e sarà costante, ma la quantità di stress a cui si è sottoposti ha anche degli innegabili vantaggi sulla linea. I portatori sani di Partita IVA possono infatti tranquillamente fare a meno della palestra, che poi manco è deducibile. Me l’ha detto il commercialista.