Federica Abbate è una ragazza milanese che per vivere scrive canzoni. Milanese, nata nel 1991, ha cominciato a fare della sua più grande dote una professione nel 2013, dopo aver vinto un concorso per giovani autori.
Da allora sono arrivate le hit del pop più radiofonico possibile, da Amore Eternit di Fedez a Nessun Grado di Separazione di Francesca Michielin fino a culminare con Roma-Bangkok, che conosciamo un po’ tutti perché qualche estate fa non si è sentito praticamente altro.
In ogni caso, come già capitato ad altri prima di lei (Kanye West, Frank Ocean, Battisti, Sia), Federica a un certo punto ha sentito il bisogno di dire la sua. Di vedere riconosciuto il proprio talento non sotto forma di crediti SIAE ma di amore del pubblico. E così a settembre è uscito Fiori Sui Balconi, firmato da Federica Abbate. Un singolo di debutto che è piaciuto non solo al suo pubblico ma anche a brand come Diadora che, insieme ad altri sette artisti di nuova generazione, l’ha scelta per la sua nuova campagna, giusto per festeggiare come si deve i 70 anni del marchio.
È vero che hai l’orecchio assoluto?
Sì, però in realtà non so bene come definirlo. Mi hanno detto che ce l’ho. Riesco a riprodurre qualsiasi nota che sento. Questa cosa dell’orecchio assoluto mi ha permesso di fare la pelandrona comunque. Non ho mai studiato piano e suono tutto in DO. Chi lo faceva già, Gino Paoli?
Ma lo fai per riflesso naturale?
Sì, perché è più facile. Poi se devo fare in altre tonalità mi ci metto, ma ci vuole più tempo. Qualcosa di piano ovviamente l’ho studiato. Ma a scuola ero sempre infastidita perché erano tutti più bravi di me, sapevano tutti leggere le note. Quindi a un certo punto ho chiuso il pianoforte e mi son detta: “Questa roba non mi serve”. Poi qualche anno dopo ho scoperto che in realtà mi serviva, non tanto per eseguire ma proprio per scrivere. E lì ho ricominciato a scrivere. Come esecutrice però sono penosa. Se mi metti davanti uno spartito e mi dici: “OK, suonalo” lì faccio davvero schifo.
Da lì a farlo per lavoro cosa è successo?
Da piccola ho sempre avuto questa vocazione. Mi è sempre venuto spontaneo farlo. Poi vabbè mi sono laureata in sociologia. Più che andare ai concerti ho sempre avuto questa passione per le canzoni. Comunque penso che la sociologia c’entri un po’ con la musica, no? Alla fine, la musica è parlare con gli altri. Poi un bel giorno del 2013 mi sono iscritta a un concorso che si chiama “Genova Per Voi” nonostante si svolga a Milano. E niente, quando ho vinto il concorso ho iniziato a lavorare. Ho vinto un contratto discografico e da lì non ho mai smesso di scrivere, di lavorare.
E la prima hit qual è stata?
La prima grossa grossa direi Amore Eternit di Fedez con Noemi. È finita anche in radio. Invece la prima canzone in assoluto che ho scritto per lavoro è Danzeremo a Luci Spente di Deborah Iurato!
Scrivi tutto tu, testi e musiche?
Sì, c’è da dire che si lavora tanto in team quando si scrive per gli altri. Io lavoro tanto con Cheope [il figlio di Mogol, ndr], che è un ottimo paroliere. Invece sulle mie cose sono molto più personale, non scrivo con nessun altro. Ho bisogno di dire le mie cose.
Ma non hai paura di scrivere meglio per gli altri che per te stessa?
Il dubbio c’è sempre. Quando lo fai per gli altri, lo fai per compiacerli. Fare una canzone per qualcun altro significa assicurargli successo, passaggi radiofonici, eccetera. Non significa certo che tu ti metti nei panni degli altri e cerchi di esprimere le loro emozioni. Un cantautore invece ci mette un po’ di più. È più complesso costruirsi un’identità artistica, ci mette un po’ di più a essere capito dagli altri. Io adesso, dopo quattro anni belli intensi da autrice, devo dimenticarmi un po’ di pensare a compiacere il pubblico e al contrario esprimere di più me stessa. Devo andare un po’ contro l’abitudine e quello che finora è stato il mio lavoro. Non è detto che questo mio nuovo linguaggio venga capito subito, all’inizio non ti interessa. Ma ora voglio sfogare un po’ di cose mie, ora ho bisogno di essere capita. La vivono un po’ tutti questa dualità. Anche i rapper: vogliono essere veri ma anche spaccare.
E come ti stai trovando in questa nuova veste?
Eh, è stato un passaggio travagliato. Prima di tutto perché, quando fai l’autore, sei completamente concentrato sulla musica, sulla canzone. Invece ora devo gestire un’immagine, entrano in gioco fattori più complessi. Sembra una cosa stupida, ma una foto sui Social o un videoclip possono dire mille cose di un artista. Nel bene o nel male. Devi imparare a comunicare.
È un mondo tanto maschile quello degli autori?
Beh, sì. Quando lavoro sono sempre l’unica femminuccia. E paradossalmente sono sempre gli uomini a scrivere tantissimo per le artiste donne. Non riesco a capire il motivo. Ma non mi sento sola, sto bene coi maschietti.
Stai meglio coi maschi?
In realtà no, perché la mia migliore amica è femmina e il mio migliore amico è gay. Però mi trovo bene coi maschi. Pensa che il primo con cui mi sono trovata bene a lavorare è stato Marracash, che è proprio un maschio alfa.
Come ti diverti tu?
Allora, sono parecchio strana. Ho dei periodi di calma piatta e invece altri in cui mi trasformo in Satana. Tipo apertura delle gabbie. Ogni tanto ci vuole un bello sfogo, una serata pazza. Però dall’altra parte devo dormire almeno 8 ore a notte, altrimenti divento uno zombie.
Parliamo di originalità. Secondo te è inevitabile che, nel pop, n pezzo italiano debba rifarsi a qualcosa di estero oppure qualche volta si può essere originali?
Tendenzialmente si cerca sempre di andare avanti, quindi guardi ai modelli musicali esteri. Modelli che storicamente sono più avanti. Negli anni Sessanta magari era il contrario, ma ora è normale strizzare l’occhietto altrove. Ormai c’è Spotify, quindi se c’è un genere che funziona in America la gente prima o poi lo viene a sapere. Tanto vale ispirarsi a quel trend. Per quanto ascolti molta musica italiana che ascoltavano anche i miei genitori, finirò sempre per passare più tempo su artisti stranieri. Cerco sempre di spingermi al di là ma senza perdere l’essenza dell’italianità. L’italiano deve capire ciò che ascolta, altrimenti non gli piace. Devi dargli qualcosa di già mezzo digerito.
Ci sono tanti produttori che poi come te sono passati ad artisti. Qual è il tuo modello?
Sia è il mio modello. Ha anche un percorso simile al mio. Faceva l’autrice di successo, mentre il suo primo disco è molto personale. Si è sfogata molto in quel disco. Poi però ha detto: “Sai che c’è? Io adesso però voglio essere capita.” E ora è una delle artiste più famose al mondo. Anche Battisti ha iniziato così. Prima o poi un autore capisce come portare dalla sua parte questa dote che possiede. Non è necessario diventare anche performer ed esibirsi su un palco. Molti artisti non lo fanno. Io un po’ voglio dire la mia e un po’ voglio togliermi delle soddisfazioni.
Come stai gestendo questa metamorfosi a livello emotivo?
È tosta. Sono sempre stata molto emotiva. Ma alla fine è anche grazie a questo che faccio musica. All’inizio la vivevo un pochino in paranoia. Ora mi sto cominciando a divertire. Sono contenta.