Austria, Belgio, Brasile, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Grecia, Hong Kong, Israele, Italia, Romania, Spagna, Sudafrica, Stati Uniti, Svizzera, Turchia, Ungheria. Arriveranno gallerie da ben venti Paesi diversi in questi giorni (dal 13 al 15 aprile) a Milano e probabilmente possiamo dire che MiArt, come ogni anno, trasformerà la città nel G20 dell’arte. Un forum internazionale che, anziché chiamare a raccolta i ministri delle finanze, riunisce artisti di ogni sorta e grado per una fiera che mette insieme arte moderna, contemporanea e design. Il direttore d’orchestra di questa grande adunata è Alessandro Rabottini, che oltre a essere preparatissimo è pure simpatico e caciarone quanto basta.
Da qualche anno le fiere sono uno dei tasselli più importanti dei sistemi dell’arte e il giro d’affari di questo mercato è arrivato a pareggiare quello delle case d’asta. Il vantaggio, ovviamente, è che si ha a che fare con le singole gallerie e quindi il rapporto con chi vende è più diretto e confidenziale. Non vi preoccupate, non siete obbligati a comprare. Potete andare anche solo a ficcare il naso e godere dei gioielli delle 184 gallerie che quest’anno saranno divise in sette diverse sezioni in Fieramilanocity: Established, la sezione principale divisa tra Contemporary (gallerie specializzate in arte contemporanea) e Master (quelle che propongono artisti storicizzati con opere dai primi del ‘900 fino agli anni Novanta del secolo scorso); Emergent, focalizzata sulla ricerca delle giovani generazioni; Decades, che ci mostra un viaggio attraverso le decadi del XX secolo (e chissà come i galleristi si sono litigati gli anni migliori, perché ognuno di loro ha dovuto sviluppare proprio un decennio); On Demand, la più divertente e “spensierata” forse, dove si possono vedere i progetti interattivi; Object, dedicata a una selezione di gallerie che promuovono design sperimentale e in edizione limitata; Generations, una sorta di gioco delle coppie, nel quale 16 gallerie sono invitate a creare un dialogo tra le opere di due artisti. Proprio in quest’ultima sezione per la prima volta partecipa alla Fiera un nome che all’interno del mondo dell’arte fa parecchio rumore: Gagosian. Larry Gagosian, il re dei galleristi, presente con sue sedi in molte città del mondo e che proprio in questi mesi compie i suoi dieci anni a Roma. Già, perché incredibilmente King Larry proprio dieci anni fa decise di sbarcare nella Capitale, lasciando tutti di stucco proprio per la scarsa vocazione della città all’arte contemporanea.
Per MiArt Gagosian collaborerà con la galleria Mazzoleni, mettendo in relazione il lavoro del gigante Alberto Burri con quello del giovane americano Sterling Ruby. Per questo debutto milanese e per il traguardo dei loro primi dieci anni in Italia, siamo andati a trovare Pepi Marchetti Franchi, che guida la sede romana e che, prima di questo incarico, lavorava al Guggenheim di New York dal quale Gagosian ha dovuto insistere non poco per portarla via. «Sono romana, ma vivevo a New York e l’idea di tornare non era proprio del tutto ovvia».
Come ti ha convinto?
Con il concetto della galleria: l’Italia, e soprattutto Roma, hanno un enorme potere attrattivo verso gli artisti, una categoria non proprio affine al concetto di vacanza. Gli artisti si spostano se hanno qualcosa da fare e Roma è un posto dove desiderano avere qualcosa da fare. Gagosian sapeva che i grandi nomi non vedevano l’ora di confrontarsi con questo luogo: quando ho capito questo, mi sono convinta del fatto che il progetto avrebbe potuto avere gambe lunghe.
Certo ci vuole coraggio.
Eh già, ci vuole un bel fegato e un sacco di energia, necessaria fin dalla ricerca dello spazio.
La vostra sede romana è incredibile, una grande sala ovale con soffitti di 6 metri. Non esattamente facile come spazio. E poi tu venivi da un altro spazio circolare, il Guggenheim: sei ossessionata da questa forma?
In realtà ho temuto che la gente potesse pensare che fosse un mio chiodo fisso (ride) … Questo spazio in realtà è un po’ borrominiano. Ha un forte carattere classico, ma è stato restaurato con un’impronta molto contemporanea. È uno spazio che gli artisti amano perché li sfida, ma non li tradisce mai.
Quante mostre avete fatto in dieci anni?
Quarantasette.
Tantissime! Chi è quello che ti ha fatto la richiesta più assurda?
Forse Richard Serra, quando ci ha chiesto di chiudere completamente l’impianto di aereazione della galleria, perché gli dava fastidio.
Lo avete fatto?
Sì certo, cerchiamo di fare qualunque cosa chiedano. Questo è il segreto del successo: farli sentire nel loro ambiente ideale. Ma questo è niente, Gagosian ha fatto entrare un elefante in galleria a New York, distruggendo il pavimento, senza battere ciglio.
Gagosian è un uomo molto potente. È il classico gallerista che tutto può con chi rappresenta?
I nostri artisti sono i top del mondo, quindi direi che con la scuderia che ha messo insieme, il confronto è alla pari.
Come è cambiato il mondo dell’arte in questi anni?
Si è polarizzato molto. Ha acquisito forza pur nel contesto di una situazione politica ed economica non delle più rosee. È cresciuto, nonostante per quanto riguarda i mercati abbia caratteristiche demografiche molto ristrette. Poi c’è stato il fenomeno delle fiere, che è esploso ed è diventato “il modo” in cui guardare le opere.
Gagosian fa molte fiere del mondo, perché mai prima di ora in Italia?
In parte perché la direzione delle fiere italiane non coincideva con la nostra, e poi diciamo che la nostra presenza in Italia era già di per sé un’avventura e non c’era bisogno di intraprenderne altre dal punto di vista commerciale. I tempi, adesso, sono maturi.
Perché Milano?
La qualità crescente della fiera e della città che la ospita insieme alla possibilità di focalizzare la nostra partecipazione su un dialogo internazionale e intergenerazionale, quello tra Sterling Ruby e Alberto Burri, sono stati incentivi fondamentali per questa decisione.
Il nostro Paese può ancora dire la sua sull’arte contemporanea? Ci sono molti curatori italiani oggi a capo di importanti Istituzioni in giro per il mondo, ma qui succede ancora poco.
Trovo che sia un gran bel fenomeno avere tutti questi connazionali in ruoli chiave. Poi dobbiamo dire che i confini si sono molto allargati e quindi l’Italia è molto più ristretta rispetto a un tempo. Voglio dire, siamo un paese piccolo e quindi a livello statistico avere prodotto tutti questi talenti, che dirigono musei e hanno incarichi importanti, la dice lunga su un vantaggio che nonostante tutto continuiamo ad avere. Siamo un Paese dalla tradizione storico artistica che non ha eguali e siccome tutta l’arte è stata contemporanea, noi abbiamo un valore aggiunto. Anche se facciamo di tutto per affossare noi stessi.