Se siete affezionati all’immagine sensuale e maudit di Louis Garrel, al suo fascino da ribelle tenebroso col ciuffo davanti agli occhi e la luce costantemente di taglio, be’ potreste rimanere se non delusi, quantomeno spiazzati per come lo vedrete apparire nei Fantasmi d’Ismael, il nuovo film di Arnaud Desplechin, in cui fa la parte di un giovane diplomatico francese con un look punitivo: capelli rasati e una stramba goffaggine nell’approcciarsi alle donne. È uno spiazzamento voluto, in un personaggio costruito sul filo dell’ambiguità, dove non è mai chiaro se si tratti di un’astutissima spia o di una specie di idiot savant.
«Abbiamo lavorato proprio su questa ambiguità», mi conferma Garrel, seduto al bar dell’Excelsior di Roma, i capelli ancora corti, una sigaretta elettronica al posto di una Gitanes, lo zainetto Fjällräven Kånken e l’aria più da ragazzo di Roma Nord che da parigino maledetto. «Arnaud mi mandava messaggi a raffica su come doveva essere il mio personaggio: balbuziente? No, no non balbuziente… impacciato, sì, ma come? Finché un giorno mi fa: “Eureka! Ho trovato! È vergine!”. E io: “Vergine!? In che senso?”. Insomma, all’inizio mi sembrava un’assurdità, e lui mi ha spiegato che gli piacevano gli attori che recitavano in maniera non virile, da castrati… per dire, anche John Wayne in fondo recitava da castrato, no?».
Non ho idea di cosa significhi che John Wayne recitasse da castrato, ma faccio un cenno di assenso, perché vada avanti. «Allora ci ho pensato», continua Garrel, «e mi sono detto: “Ha ragione! I grandi attori recitano senza libido”. E sai che c’è? Questo mi ha illuminato sul perché molti attori mi disturbano: trasmettono troppa libido».
Una bella presa di distanza dai suoi esordi bertolucciani o da certi film di Honoré, dove stava praticamente nudo metà del tempo. Ma anche su quello Garrel ci tiene a precisare: «Non recitavo in maniera davvero sessuale, recitavo nudo, punto e basta. Ho una personalità molto infantile e quindi stare nudo mi procurava una specie di piacere idiota».
I Fantasmi d’Ismael è un film talmente francese da rasentare la parodia di film francese: amore smodato per il cinema, citazioni di Godard e Truffaut, un protagonista – Mathieu Amalric – fieramente bohémien nonostante l’età, un triangolo amoroso, dialoghi scombinati ma intellettualissimi. Ricordo una volta in cui tentavo di dire a dei miei amici parigini che era un po’ difficile per un non-francese amare visceralmente il cinema di Desplechin e loro mi guardavano con afflizione per il mio deficit culturale, che doveva sembrar loro, palesemente, un limite cognitivo. Lo racconto a Desplechin e si mette a ridere: «Ma io non mi sento così francese. Sai che cos’è veramente francese? Il mio modo di amare i film americani. È una tradizione che va avanti dagli anni ‘30, pure Jean Renoir adorava il cinema americano». «Nei libri di Henry Miller ambientati a Parigi», interviene Garrel in un modo probabilmente anche quello molto francese di fare associazioni random, buttando in mezzo una citazione, «le persone stanno sedute dalla mattina alla sera al cafè, e la gente allora si chiede: ma che cavolo fanno questi francesi nella vita che stanno sempre al bar? È così che nascono i cliché».
Fa una pausa per inseguire un altro pensiero, aspirando dalla sigaretta elettronica: «Però c’è qualcosa che noi francesi invidiamo tanto a voi italiani, ed è l’autoironia. Anzi, è una cosa che probabilmente vi invidia tutto il mondo: siete autoironici senza mai scadere nella parodia. Prendi un attore come Servillo, ha questa distanza ironica da sé, sa prendersi in giro. Noi ci proviamo, ma diventiamo auto-caricaturali, ci manca la grazia». Eppure ultimamente siamo noi italiani a invidiare la grazia francese nel costruire commedie sofisticate, che abbiamo cercato di imitare in maniera fallimentare. Penso a un film come Quasi amici. «Quasi amici è Intouchables, giusto? Chissà perché gli avete cambiato il titolo… Comunque per me non c’è niente di intrinsecamente francese in quel film», mi spiega Desplechin. «Il merito è soltanto di due registi bravissimi come Olivier Nakache e Éric Toledano, che peraltro tra i loro riferimenti hanno un sacco di cinema americano e italiano».
Visto che ormai la conversazione ha preso questa piega, ci riprovo: «E che mi dite del ménage a trois, almeno quello lo considerate un topos nazionale?». «Assolutamente no», risponde secco Garrel. «Il maestro di queste cose è Lubitsch, è una roba americana». “Ma gli americani sono più puritani rispetto ai francesi”, mi permetto di dire. «No, Lubitsch! È certamente lui il numero uno. E anche Raoul Walsh!».
Nei Fantasmi d’Ismael il triangolo amoroso è tra due donne, Charlotte Gainsbourg e Marion Cotillard, e un uomo, Mathieu Amalric. Il confronto tra le due figure femminili è forse la parte più bella del film, e mi chiedo se a ruoli rovesciati il confronto tra due uomini avrebbe preso una deriva da antagonismo titanico, con un rischio machista. «No, secondo me il confronto invece avrebbe rischiato di diventare farsesco», mi dice Desplechin. «Almeno, io tendo a conferire ai miei personaggi maschili una certa dose di ridicolo. Una donna proiettata su uno schermo raggiunge il sublime, un uomo non raggiunge mai il sublime, e quindi anche lo scontro titanico tra due uomini avrebbe qualcosa di comico». «Io penso che gli uomini siano per loro indole più nostalgici, legati al passato, mentre le donne guardano al futuro», commenta Garrel. «E questo film gioca proprio sui fantasmi di Ismael, che riemergono dal passato e che si scontrano con la figura di Charlotte, quella che può mettere l’ultima parola sull’avvenire. Il passato è come se fosse maledetto».
Tra questi fantasmi ci sono anche i rapporti irrisolti con la propria famiglia, quell’eredità complessa che ci lasciano parenti forse troppo ingombranti. Chiedo allora se la scelta del cast non sia stata casuale, insomma: figli d’arte. Sia Garrel che Desplechin mi guardano un po’ confusi: «Ah, sei la prima persona a farcelo notare!».