Volevo intervistare Adam Driver dai tempi di Paterson, il film di Jim Jarmusch con Golshifiteh Farahani in concorso a Cannes 2016. Così, quando ho saputo che l’attore era di nuovo in Croisette con tre dei film più attesi della line up di quest’anno, ho iniziato a braccare gli uffici stampa sperando nella defezione di qualche collega più illustre e disposta, se necessario, anche a ripiegare su metodi esoterici tipo spilli e pupazzi. Per sfinimento comunque alla fine qualcuno di loro ha ceduto. E così ho avuto per “un quarto d’ora la mia celebrità”.
I publicist sono una categoria faustiana: se ti danno qualcosa è sicuro che in cambio vogliono la tua anima con tanto di sadico contrattino che include clausule, postille, embarghi orari, divieti (tipo nessuna domanda privata; proibito pronunciare Star Wars; nessuna ripresa con stazioni id: cellulari, smartphone, IPad, IPhone, Samsung e penne banditi; bannate anche le riprese da protesi ortodontiche nascoste, le foto di qualsiasi natura, gli autografi, i ritratti a carboncino; necessario mantenere distanza di sicurezza dal talent, non toccarlo, non respirare troppa della sua aria, etc) e tu pur di prendere questa intervista accetti tutto. Anche di farla bendato su un tappeto di chiodi, astinente da cibo e acqua per le precedenti 24 ore. “Guarda, ma non toccare. Tocca, ma non gustare. Gusta, ma non inghiottire!” diceva Al Pacino, alias Belzebù, nel suo monologo mefistofelico ne L’Avvocato del Diavolo. Negli ultimi anni penso spesso che Tony Gilroy e Jonathan Lemkin (gli sceneggiatori) si siano ispirati a un ufficio stampa quando hanno scritto quell’assolo. In fondo chi se ne importa delle condizioni, se il fine giustifica il mezzo.
Spiaggia del Majestic, vedo Adam avvicinarsi, alto, muscoloso, asciutto, viso piccolo. Più piccolo rispetto al corpo, sembra un po’ un alieno. Tratti irregolari, capelli nero inchiostro lunghi sulle orecchie a sventola, camicia e jeans Levi’s, chiaramente devastato dall’attività stampa dei giorni precedenti… “Ti dispiace?” esordisco. Mette il lavalier Sennheiser di malavoglia “Perché me lo chiedi, se non ho scelta”. Se cedo alle provocazioni sarà stitico nelle risposte e ogni sforzo andrà perduto, meglio che sia io a trattenermi.
Due anni fa eri qui con Golshifiteh. Quest’anno siete in qualche modo rivali, perché lei e la protagonista di Les filles du soleil di Eva Husson. Hai avuto modo di incontrarla e parlarci?
No, non l’ho ancora vista, non credo che faremo in tempo. Però non la metterei come l’hai presentata tu, non mi sento suo rivale. Certo si tratta di una competizione, ma per convenzione, in realtà la vedo più come una vetrina per fare una prestigiosa passeggiata sul tappeto rosso sotto lo sguardo voyeurista del mondo. Personalmente non sento la pressione della gara. Ovvio mi auguro di aver fatto un buon lavoro e che i film a cui ho preso parte siano buoni, ma oltre a questo nessun antagonismo.
Parliamo di The Man Who Killed Don Quixote (progetto durato un quarto di secolo in cui Driver ha preso parte circa tre anni fa, nda): con tutte quelle controversie ti è mai balenata in qualche momento l’idea di abbandonare il set di Terry Gilliam?
Io ho sempre la sensazione di voler fuggire da qualsiasi set. Ogni volta che inizio a girare un film penso che mi sono messo in un grande casino. (Pausa, aspetta la reazione, nda). Ok, dai, sto scherzando. Ma sono sicuro che capitano anche a te quei giorni che vai a lavoro e pensi di aver fatto il più grande errore della tua vita a scegliere quel mestiere. Quando hai preso delle pessime abitudini, sei privo di idee o ti sei preparato nel modo sbagliato. Parlo in generale, non in relazione a Don Quixote. Credo che nessun film sia frutto di un miracolo, questo non fa eccezione. L’abbiamo provato a fare per tre anni prima di riuscire ad iniziare davvero le riprese. Ma ci sono centinaia di casi come questo. Penso per esempio a Silence di Scorsese (Driver era Garupe, nda): Martin ci ha perso 25 anni dietro a quel progetto e quando poi è andato in porto ci sono stati un numero imprecisato di ulteriori intoppi prima di portarlo a termine. Quindi non credo che si tratti di un lavoro che succede per miracolo, come qualsiasi altro lavoro del resto, e non penso che The Man Who Killed Don Quixote rappresenti un caso straordinario, se non nella tenacia necessaria per finirlo.
Ed è stato complicato per te interpretare la parte?
Abbiamo girato in location molto suggestive, ma direi il falso se non ammettessi che è stato particolarmente impegnativo: la troupe era numerosa, un sacco di attori in scena con cui coordinarsi, i dirupi da scalare, gli animali che andavano nella direzione sbagliata, i cavalli imbizzarriti, il clima, il tempo, la luce, i soldi, stare nella terra ed essere coperti per tre quarti del film di fango… È una grande sfida, né puoi far finta che non sta succedendo niente o che non impatterà su quel che deve fare il tuo personaggio. D’altra parte non sei nel mondo reale e nonostante tu stia cercando disperatamente di prendere il controllo della situazione, non c’è modo di farlo. Alla fine non ti resta che lasciarti andare alle circostanze.
Quindi è stato stressante questo film?
Certo se lo vuoi fare bene, ma non giova al nostro lavoro sentirsi troppo sotto pressione, non solo nel caso di Don Quixote, questa è una regola che vale sempre: se ti senti troppo costretto sprechi energie utili alla buona riuscita dell’interpretazione. In quel caso è meglio che ti fermi e fai un attimo di pausa.
Ci puoi parlare del lavoro con Terry Gilliam?
Esattamente come te lo immagini. Il suo è un mondo fantastico, visionario. La caratteristica peraltro che preferisco dei suoi film. Allo stesso tempo ha le idee molto chiare. Ti spiego: quando leggi lo script ti chiedi come cavolo fa a metterci tutti quei dettagli, poi arrivi sul posto e finalmente ti rendi conto di cosa intendeva e ne afferri il senso complessivo. D’altra parte ha avuto 25 anni per pensarci e nella sua testa ha avuto modo di girarlo parecchie volte. Nonostante ciò non è per niente rigido e se si presenta un’occasione diversa, migliore o più interessante, sul set si presta agli assestamenti del caso. Io ho visto un regista molto aperto, disponibile, malleabile, mai dittatoriale. Abbiamo lavorato in un’atmosfera davvero democratica.
Ti senti di essere stato il suo alter ego nel film?
No. Cioè non credo che lui avesse questa intenzione. Capisco che intendi, il parallelo tra le avventure di Toby e il viaggio di Terry per realizzare questo film, ma non ho mai fatto finta di essere Terry, mi sono attenuto a quello che doveva invece essere il mio personaggio. Se proprio devo offrirti un’interpretazione penso che Sancho Panza e Don Quixote siano due aspetti di ognuno di noi: uno più realista e concreto che vede i pericoli ed ha una visione lucida della vita, l’altro più visionario che immagina cosa potrebbe esserci oltre quella laida realtà. Non sto dicendo che sia il messaggio specifico del film, dico soltanto che noi tutti siamo sia Sancho che Don Quixote.
Come ti senti in relazione al fatto che sia nel film di Spike Lee, Blackkklansman, che in questo si fa riferimento a tue supposte origini ebree.
Continuate a farmi questa domanda, quando io non ci avevo neppure fatto caso. Non è nei miei poteri prevedere cosa conterranno le sceneggiature. Si è trattato di una coincidenza, tuttavia io non sono ebreo e quindi non penso di poter dire che significhi esserlo.
Ti senti in sintonia con lo humor dei Monty Python?
Cavolo, che domanda è: chi è che non li trova divertenti. Li ho amati mentre crescevo e continuo anche adesso. Confesso che piacciono in generale i comici: Ben Stiller, Adam Sandler… Vuoi che ti suggerisca una filmografia? (Ride).
Senti di aver imparato qualcosa con questa esperienza?
Che ho imparato…? (lo ripete più volte, in sovrappensiero, poi ridacchia, nda). Tutte le risposte che mi vengono in mente sarebbero troppo sarcastiche. Comunque non potrei riassumertele in forma di precetto filosofico: se è questo che vuoi, non sono il tipo.
Quali sono secondo te gli effetti benefici di Cannes su un film?
Non posso dirtelo certo io. Né te lo saprei tradurre in maniera matematica. Posso solo sedermi come qualsiasi altra persona che va ad un festival e aspettare la risposta che arriva dal pubblico e dai media. Trovo di grande ispirazione il lavoro dei festival che sostengono progetti di registi che, come questo, hanno incontrato parecchie difficoltà.
Ccnosci qualche produttore che assomiglia al cattivo del film? Magari qualcuno che girava sul set, visto che ce ne erano parecchi?
Non tutti erano coinvolti allo stesso modo, e poi stai sopravvalutando le mie conoscenze, adesso dovrei ripassare l’intero breve catalogo della mia vita, senza comunque riuscire a nominarti uno che coincide con quello descritto nel film.
C’è un metodo specifico che usi come attore?
No, non mi attengo a un metodo inteso come tale, se è questo che vuoi sapere. Credo che sia il progetto stesso a dettarti come impostare la parte. La cosa fondamentale che cerco di fare è andare a tempo con le mie battute in modo da non creare problemi agli altri, perché so che faccio parte di un insieme di persone e che se non ci coordiniamo ne risentono tutto il cast e la troupe. L’ho imparato durante il servizio militare che quando sei parte di una squadra, non funzionerà se non sei sintonizzato con gli altri. È necessaria la complicità con tutti i membri del team: se non li aiuti a fare il loro lavoro ne risentirà anche il tuo. Cerco di trattenermi e ribellarmi silenziosamente quando ne ho bisogno, in modo che non ne subisca le conseguenze chi mi sta intorno. Poi non si può generalizzare. Ogni giornata è diversa. Magari ti svegli uno schifo e pensi che andrà tutto male, invece ti sorprendi del risultato, oppure pensi di aver fatto un ottimo lavoro e ti accorgi solo alla fine che è stato un disastro. Ogni film è davvero un universo a sé e l’unica cosa che puoi fare è dare il tuo meglio, oltre quello nient’altro.
Te l’aspettavi di avere tutto questo successo?
No (mi blocca prima ancora che finisca la domanda). Il mio obiettivo quando ho finito la Juilliard era sopravvivere, cioè mangiare, permettermi un affitto in città e pagare le bollette. Guadagnare abbastanza da metter su famiglia magari, ma non me lo sarei immaginato nemmeno lontanamente di lavorare con il calibro di artisti con cui sono riuscito a collaborare, quelli che hanno segnato la mia infanzia e per cui ho scelto poi di diventare attore.
C’è stato un momento in cui ti sei reso conto del salto?
Non sono abituato a ragionare in termini di conquiste. Quello che so è che sono qui, che ce l’ho fatta. Ci sono un mucchio di cose che mi sono capitate nel frattempo: ti posso dire che la Juilliard per me è stata un momento determinante, che ricordo la prima scrittura a Broadway come un evento esaltante. Ritengo che l’affare Girls sia stato un colpaccio e definirei il film con Scorsese una soddisfazione incalcolabile, senza contare i grandi titoli: Star Wars su tutti, The Meyerowitz Stories, Inside Llewin Davis. E ancora, lavorare con Terry o Jim Jarmusch: tutto ha contribuito ad arrivare dove sono.
E tutto questo successo ti ha cambiato? Perché ti presenti come una persona semplice.
Santo Cielo, lo spero. E anzi grazie, sentire questo mi fa piacere. I problemi che avevo prima di Star Wars sono gli stessi che ho anche adesso. Non ha risolto nulla nella mia vita, né ha reso le cose più o meno difficili. Le persone che ho incontrato mi hanno insegnato ad essere malleabile, ma se tu alla parola “cambiamento” dai una accezione negativa non lo definirei il mio caso.
Quale è il prezzo che paghi?
In realtà non ho avuto ancora il tempo di rendermi pienamente conto di cosa comporta la fama. Su due piedi posso dirti che fino ad un certo punto pensi che il tuo lavoro come attore sia anonimo, innocuo come qualsiasi altro, anche mentre la gente ti osserva. Poi all’improvviso qualcosa cambia, cominciano a fissarti perché ti riconoscono. Beh, non mi ci sono ancora abituato, non mi sento proprio a mio agio fuori dal palco o dal set a stare al centro dell’attenzione. A un certo punto non sei più in grado di controllare cosa succede, perdi un po’ della tua libertà, devi cominciare a difenderti dalle persone, proteggere la tua privacy, perché ti spiano e si sentono tutti autorizzati a fotografarti, riprenderti e spiarti e tu ti senti impotente di fronte a tutto questo. Ti rendi conto che lavorare nello show business comporta una continua invadenza da parte degli altri. Non posso parlarti di un vero prezzo, perché riconosco di essere fortunato, ma in un certo senso perdi il controllo sulla tua vita. Diventi di pubblico dominio. Non credo che nessuno possa abituarsi mai definitivamente a questa condizione.