«Ma è giusto che io vada alla parata del Pride?», mi ha chiesto mia madre all’inizio di giugno. Non è gay, transgender o bisessuale, ma ha un figlio queer – un figlio di cui è incredibilmente orgogliosa e che accetta incondizionatamente. Vuole mostrare il suo supporto alla comunità LGBTQ, ma non è sicura che partecipare alla parata sia il modo migliore per farlo. E non è l’unica – molti cosiddetti “alleati” si stanno ponendo la stessa domanda, soprattutto nel 2018.
Gli ultimi due anni non sono stati facili per la comunità LGBTQ. L’ottimismo che girava nell’aria dell’estate 2015 – tutto cominciò con la decisione della Corte Suprema a favore dei matrimoni omosessuali – è sparito in fretta con le notizie orribili della sparatoria al Pulse Nightclub. Sei mesi dopo Trump e Pence si sono insediati alla Casa Bianca. Nel giro di pochissimo tempo la comunità è passata dall’ottimismo alla pura protesta.
Ma è tutto il movimento, in realtà, a nascere dalla protesta.
La prima marcia della storia fu pensata per commemorare le rivolte di Stonewall, durante le prime ore del mattino del 28 giugno 1969. La comunità queer di New York City era stanca dei maltrattamenti e della discriminazione riservatagli dalla polizia, così durante un raid allo Stonewall Inn, un gay bar nel cuore del Village, la comunità decise di reagire. Un anno dopo nacque la marcia del Pride, proprio a commemorazione di quegli eventi.
La parata, adesso, rappresenta tante cose diverse per la comunità LGBTQ. È una celebrazione delle sue diversità. È un modo per sentirsi maggioranza della società. Vedere un gruppo di queer che invadono le strade – che si baciano in pubblico, magari indossando con orgoglio outfit sgargianti – non è solo un modo per emanciparsi, ma anche per ricordare che non si è soli, che esiste una comunità enorme. È anche una marcia dedicata all’accettazione, non solo alla tolleranza. Marciamo per sconfiggere la discriminazione sul posto di lavoro, per ricevere un trattamento sanitario equo e per poterci arruolare liberamente. Marciamo per le donne transgender di colore, uccise a un tasso allarmante.
In realtà, quello per cui combattiamo si può riassumere in una singola frase: vogliamo che tutti quelli che non fanno parte della comunità ne diventino alleati. Non solo desideriamo che gli etero pensino che meritiamo il loro stesso trattamento, ma anche che combattano per i nostri diritti.
Tuttavia, non c’è niente di strano nell’apprensione di mia madre e di quelli come lei. In superficie, il pride è gestito da etero e da aziende che vogliono solo capitalizzare sulla cultura gay, vendendo prodotti in edizione limitata – il “Proud Whopper” di Burger King vi ricorda qualcosa? Questo, insieme a una serie di passi indietro per la comunità, hanno portato i gruppi di attivisti a considerare la marcia di nuovo una forma di protesta, e non più solo una festa.
Comunque, anche se la parata non è “per” mia madre o altre persone etero, questo non significa che non possa mostrare il suo supporto. L’importante è che sia genuino.
Il punto, quindi, non è domandarsi “è appropriato che gli alleati vengano al pride?”, perché la risposta è ovviamente positiva. Se non fossero autorizzati a venire, allora che dire delle donne etero che escono con uomini bisessuali? E gli uomini cisgender con mogli transgender? Il punto, invece, è capire “qual è il modo migliore per mostrare il proprio supporto, capendo allo stesso tempo che il Pride non è la loro festa?” Davvero, è facile: siate rispettosi e accettate tutti – è questo quello per cui la comunità combatte durante la parata.
Se invece scendete in piazza per guardare male gli uomini che indossano gli shorts e passeggiano esibendo il loro stile di vita “libertino”, allora forse sarebbe meglio restare a casa e girarsi i pollici fino alla fine del mese. Se pensate che i gay meritino gli stessi diritti degli etero, ma “non sapete cosa pensare dei transgender”, allora state a casa. E studiate la loro storia. Essere un alleato significa anche educarsi, e aiutare gli altri a farlo, e studiare il dramma di questa comunità di emarginati.
Poi c’è bisogno di capire che alcuni spazi non sono per tutti. Alcuni non vanno bene nemmeno per me – come le feste delle donne queer. Loro si sentono marginalizzate dagli eventi che girano intorno ai maschi gay, e quindi meritano uno spazio tutto loro. Le rispetto, e pretendo che i nostri alleati facciano lo stesso.
Essere un alleato significa anche concedere spazi. I privilegiati ne hanno in abbondanza: siete la maggioranza e probabilmente vi sentite a vostro agio in molti più luoghi rispetto a un membro della comunità LGBTQ. Succede lo stesso nelle conversazioni, quando monopolizzate l’argomento. O ancora peggio, quando dite roba come “non tutti gli etero sono così!”. Che è un po’ come gridare “Io non sono così!”. Lo sappiamo bene, grazie tante. Ma non si sta parlando di te. Anzi, se ti senti un po’ a disagio, meglio così. È questo il punto. Quindi, ricordatevi sempre di concedere il giusto spazio alla comunità gay. Non solo durante il Pride, ma tutto l’anno.
Forse dovreste chiedervi: “Sono un alleato i restanti 11 mesi dell’anno?” So che mia madre lo è, quindi questo è quello che le ho detto. «Puoi andarci, certo. Ma mi raccomando, porta un po’ di crema solare. Potrai offrirla ai ragazzoni mezzi ubriachi che si stanno beccando una brutta ustione. Magari dagli il mio numero».