«Il sole sta scendendo, e tra poco se ne sarà andato. Sparito. Da adesso in poi ci siamo solo voi e me, baby!» A Barcellona c’è un tramonto di fuoco sul mare, ma per Jack White è già notte fonda.
Esce sul palco del Cruilla Festival (un incrocio di generi musicali che per tre giorni porta nella città catalana che ha dedicato l’estate alla musica artisti come David Byrne, N.E.R.D, The Roots, Prophets of Rage, Justice, Orbital, Gilberto Gil, Damien Marley, Albert Hammond Jr. Seasick Steve) cercando l’energia del pubblico e quando trova il primo boato attacca la chitarra e spara bordate di elettricità analogica. Fin dall’inizio si capisce che tutto nel mondo di Jack White è ad un livello superiore: il modo in cui forgia il suono in simbiosi con la band e con la batteria esplosiva di Carla Azar e poi emerge altissimo con il suo tocco feroce sul manico della sei corde, la cura maniacale dei dettagli, il virtuosismo che diventa una dichiarazione di intenti.
Intorno a lui ci sono sei chitarre disposte a semicerchio, come in un rito. Le casse e tutto l’impianto sono rigorosamente analogici. L’estetica che ha scelto per questo tour (dai tempi dei White Stripes concepisce la musica come un accostamento minimale di colori) è nero, bianco e azzurro e tutto sul palco corrisponde esattamente a questa idea: è una musica fredda e profonda, brillante e magnetica, senza compromessi.
Jack White non è solo lì per intrattenere, ha una missione, e la porta in giro mettendo insieme tutte le sue identità passate e future, dai White Stripes ai Dead Weather ai Racounters, dall’album solista Lazzaretto alle sperimentazioni funk/hip-hop dell’ultimo Boarding House Reach in modo compatto, serrato, creando una musica che non ha più confini di tempo e di genere, agitata da una tensione altissima, che passa da Over and Over and Over (il pezzo che ha sempre sognato di scrivere, come ha raccontato) a Hotel Yorba, da una esplosiva The Hardest Button to Button a Steady As She Goes dei Raconteurs, dalla delicatezza acustica di We Are Gonna Be Friends all’estasi soul di Connected by Love, uno dei pezzi più belli del nuovo album.
Jack White è un personaggio che ha fatto del proprio essere bizzarro un’identità. È controcorrente, fuori dal tempo, ama complicarsi la vita perché come ha detto lui stesso «Il compito di un artista non è rendersi la vita facile», ha il coraggio di sfidare il disastro per creare sempre qualcosa di nuovo. È l’applicazione virtuosa di idee forti al processo di creazione musicale. Il suo purismo esasperato verso il blues (simile a quello di Eric Clapton per fedeltà e a quello di Keith Richards per energia) lo ha portato a creare un nuovo linguaggio. Non si può certo definire vintage: è futurismo analogico, con il groove del blues e le sferzate dell’elettronica. Come ai tempi di Elephant, un disco che ha raso al suolo tutto quello che c’era prima, con Meg White alla batteria e due colori, rosso e nero, che secondo lui rappresentavano: «La rabbia e l’innocenza».
Jack White è un prodotto dell’ossessione, di una visione maniacale della creatività che lo perseguita da quando faceva il tappezziere a Detroit a quando registrava al Toe Rag Studio di Londra, dove nessuna apparecchiatura è stata fabbricata dopo il 1975, e in piena era del CD mandava le copie di Elephant solo in vinile alla stampa accompagnate da un biglietto “Non ci fidiamo di un giornalista musicale che non possiede un giradischi”, fino ad oggi che si è creato il suo mondo dei sogni da Willy Wonka rock alla Third Man Records di Nashville in cui registra, produce e stampa in vinile (in cui durante l’ultimo tour sono passati anche gli U2 a registrare un singolo) e ha fatto Boarding House Reach in soli tre giorni a New York registrando tutto dal vivo con una band di musicisti hip-hop (ripetendo la stessa cosa a Los Angeles con un’altra band e poi mettendo insieme i nastri da solo a Nashville).
Jack White ha oggi un suono indefinibile che in realtà appartiene solo a lui. La sua musica è diventata un messaggio: minimale, rigorosa, radicale, scritta e suonata con in mente l’obiettivo più bello e più difficile, la semplicità. Il rock è una battaglia e Jack White la combatte con le sue idee e quando imbraccia una acustica amplificata con un sorriso maligno e una luce di rabbiosa innocenza nello sguardo per fare ancora una volta, sempre più distorto, il giro di basso trasformato in un riff di chitarra di Seven Nation Army, viene da pensare che a suo modo (e anche se guardandosi intorno non sembra) la stia vincendo. Perché Jack White è il musicista del passato che ha capito il futuro.