Tutto è iniziato, sei anni fa, con Tre cose, che ha scritto per Malika Ayane e che ha inaugurato alla grandissima la sua carriera di songwriter di brani di successo. Non solo, ha suggellato una crisi esistenziale molto profonda e personale, maturata dopo tante riflessioni sugli Amor Fou e su cosa volesse dire “essere indie” nel nostro paese e perché in parecchi – pubblico e artisti – ce l’avessero a morte con la melodia e con le canzoni in spiaggia. Si cambia, seppur lentamente. Perché «l’Italia è un paese molto nostalgico, è molto religioso e, se vuoi, molto fedele», dice, e benché oggi il mercato non sia più lo stesso – non potrà mai più esistere un gruppo con la stessa longevità dei Pooh o un cantante che infila cinquanta bombe in una sola carriera, Vasco Rossi – il nostro mainstream rimane piuttosto immobile e le teste fresche ai piani alti non sono ancora così tante; eufemismo. Al massimo il pop tradizionale scricchiola, merito/colpa della trap e di qualche manager più spregiudicato. E di Tommaso Paradiso, ovviamente. Insomma, dopo tanto tempo Alessandro Raina è uscito da dietro le quinte del nostro mainstream e ha pubblicato un brano a suo nome, si intitola Lana Del Rey. Parliamo di questo, delle evoluzioni future del nostra musica da classifica e di quanto sia bellissimo cantare una canzone nei momenti più diversi della giornata; a questo servono gli autori.
Come nasce Lana Del Rey?
È nata da un riff di Riccardo Onori, il chitarrista di Jovanotti. Ci siamo incontrati a Prato in una situazione molto informale, non proprio la classica session milanese. Gli è uscito questo giro marcissimo, l’ha messo in loop e ho scritto le due strofe e il ritornello in meno di un giorno. Dal momento che il bpm era simile, abbiamo provato a mettere una base trap e l’ho fatta sentire a Zef, il produttore di Rkomi con cui scrivo quando sono da Takagi & Ketra. Lui mi ha detto: “è il primo pezzo emo-trap mai uscito in Italia”. Gli ho affidato la produzione e poi è arrivato anche quel sax clamoroso, che è stata un’ulteriore follia.
Dev’essere una bella soddisfazione inserire un assolo di sax nel 2018.
(ride) Il caso vuole che dal nostro studio passasse Matt Bauder, il sassofonista degli Arcade Fire. Quando ha ascoltato la canzone ci ha detto che un pezzo così, a New York, sarebbe andato fortissimo. Ha voluto far parte del progetto e ci ha registrato otto session incredibili. Ti assicuro che il making of di questo pezzo, ad oggi, è la cosa più gratificante che mi sia capitata da quando lavoro nella musica.
È una canzone d’amore?
Mah, sì, direi d’amore contemporaneo, c’è più sesso che amore. Mi hanno fatto notare che il testo ha molte metafore sessuali a cui non avevo nemmeno fatto caso. È stata una canzone a suo modo premonitrice: parla di un rapporto che non si risolve mai e, pochi mesi dopo, la mia ragazza se ne è andata di casa. Sicuramente vorrà dire qualcosa…
Tra brand e citazioni varie, il testo è fin troppo immerso nel presente. È un problema?
Se lo si legge in modo analitico e un po’ dietrologico, può sembrare che cerco a tutti costi la citazione dello status symbol e che strizzo l’occhio ad un certo immaginario. Può essere anche vista come una provocazione nei confronti della trap, che considero un grande, gigantesco, luogo comune. Sia chiaro, io non ho nessuna velleità di essere credibile per chi ascolta queste cose oggi, magari mi piacerebbe che Carl Brave, Gemitaiz o Achille Lauro – che trovo mostruosamente bravo – la sentissero, ma l’apprezzassero soprattutto in quanto canzone pop. Detto questo, nel testo non c’è niente che non faccia parte del mio vissuto.
Quindi puoi permetterti una tuta di Marcelo Burlon?
Magari non la tuta intera, giusto la giacca (ride). Lui mi affascina molto, come sai mi è sempre piaciuta la cura dell’immagine, dei vestiti, ecc. Per molto tempo ho lavorato nella moda, poi me ne sono disinteressato per parecchi anni ma, quando i designer o alcuni artisti provenienti dal mondo street hanno preso in mano l’estetica contemporanea, ho ricominciato a seguirla. Sono uno che veste casual, ma mi piace mischiarlo a cose diverse, che ne so Burberry insieme a Supreme o Balenciaga. In Lana Del Rey, in realtà, mi riferisco ai giapponesi che sono dei grandi amanti dei marchi dark ma, sì, qualcosa di Burlon nell’armadio ce l’avrò di sicuro.
C’è chi sostiene che se una canzone vuole essere eterna non può citare la contemporaneità in modo così preciso, che ne pensi?
Son d’accordo, infatti ero molto apprensivo a riguardo. Nonostante la scrittura sia stata piuttosto immediata, è servito parecchio tempo in fase di missaggio e per realizzare il videoclip. Ogni mese che passava mi sembrava una decade. Pensa solo alla frase su Higuain riferita alla querelle Juve-Napoli, che è stato uno dei temi del calcio degli ultimi anni e ora Gonzalo andrà al Milan. Tra pochissimo questo pezzo sarà già vecchio, ma ci tenevo perché doveva essere una fotografia del momento che stavo vivendo. Magari tra due mesi ne uscirà un’altra ed è proprio la cosa che più mi sta stimolando adesso, l’opposto di quando scrivevo un disco intero ma che poi usciva dopo due anni.
La scorsa estate ti sei riunito con gli Amor Fou, la tua vecchia band, per un unico concerto dedicato a 100 giorni da oggi, il vostro ultimo album uscito nel 2012. Molti hanno colto l’occasione per dire che ai tempi vi sareste meritati il successo che poi hanno avuto i Thegiornalisti. Io non sono particolarmente d’accordo, tu?
No, nemmeno io. Se fosse uscito oggi forse avrebbe avuto una ricettività maggiore, ma sono convinto che quel disco abbia avuto la sorte che si meritava. Nei testi secondo me eravamo molto avanti e se avessimo fatto un album con dieci pezzi tutti simili ad Alì, forse, oggi avremmo avuto più possibilità, ma obiettivamente era un disco figlio del nostro percorso – all’epoca di già over trentenni – ed era troppo eclettico dal punto di vista delle sonorità. Era come se ci sentissimo obbligati a inserire duecento citazioni solo per dimostrare che sapevamo dire cose forti. Per noi era bellissimo, sia chiaro, ma allo stesso tempo sarebbe stato importante trovare il coraggio di mostrare la nostra identità senza troppe sovrastrutture, riferimenti colti, ecc. Dopo quel disco ho dovuto affrontare un periodo di crisi profondissima a livello creativo, personale e esistenziale.
Oggi il successo di Calcutta o dei Thegiornalisti influenza il tuo lavoro di autore di canzoni pop mainstream?
Direi di no, se non da un punto di vista testuale. Li devo ringraziare perché oggi posso permettermi un frasario che adesso suona “indie” – quindi “cool” – mentre cinque anni fa veniva considerato ostico. Se parliamo di puro songwriting, però, non percepisco grandi influenze. Tolto Tommaso Paradiso, che è una garanzia, una vera macchina da canzoni, nessuno dei nomi che ora hanno successo ha una scrittura così solida. Ad esempio, l’unica che mi piace veramente tanto di Calcutta è Oroscopo, e mi piace tantissimo perché ci sono degli elementi tipici della sua musica che sono stati deviati senza aver perso personalità, questo tipo di equilibrio nel pop è molto importante. Calcutta è fresco, e nel primo disco ci sono tre-quattro pezzi obiettivamente molto forti, ma la sua potenzialità pop non è stata ancora espressa a pieno, probabilmente non gli interessa nemmeno.
È difficile scrivere una canzone in italiano?
(lunga pausa) Per me no, ma è molto difficile, soprattutto se ti manca un background solido di ascolti in italiano. Trovo limitante il fatto che molti oggi scrivano ancora le melodie in fake english per poi tradurle adattando la fonetica e la metrica. Manca un bagaglio culturale vero, magari molti hanno ascoltato i cantautori ma pochi conoscono veramente Carboni, Tozzi, Ruggeri e quel periodo del nostro pop. Tutta roba che è stata molto importante.
Se ci paragoniamo all’estero non ne usciamo bene. Le nostre hit sembrano la versione “già stanca” di quelle statunitensi. È normale seguire i trend ed è raro fare rivoluzioni nel pop, ma a noi manca sempre quella scintilla in più che ti stupisce davvero. È solo una banale questione di budget o c’è di più?
No, non è una questione di soldi. Ci sono dischi italiani recenti che sono stati fatti spendendo cifre incredibili e, da un punto di vista produttivo, sono mediocri. Come ci sono video che sono costati una follia solo per mandare uno su un tetto a Los Angeles e magari si otteneva lo stesso effetto girandolo a Segrate. Al netto della crisi, la musica mainstream genera ancora un volume di denaro impressionante, dipende come lo usi. Senza per forza paragonarci sempre all’America, prendi la Francia: ha avuto una crisi discografica tremenda negli anni ’80 e non ne è uscita con i cantanti dei talent, ma con i Daft Punk, gli Air, i Phoenix e anche molti cantautori classici ma che sono comunque più freschi dei loro nonni. Un paese che ti tira fuori Stromae ti deve far riflettere, e ti potrei anche citare l’Islanda o altri esempi ancora.
I Phoenix e i Daft Punk sono gruppi che aspirano a conquistare il mondo, noi spesso puntiamo solo all’Italia. Una delle conseguenze è che per fare dei buoni numeri devi per forza piacere a tutti – dai bambini, ai teenager, alla nonne – proponendo cose meno sofisticate?
È uno dei fattori da tenere considerazione, è vero. Oggi i bambini sono uno dei principali pubblici di riferimento e fidelizzare la famiglia è molto importante. Ma ti assicuro che c’è anche dell’altro.
Quindi il problema è culturale.
Se prendessimo un campione di un milione di aspiranti pop star, scopriremmo che 995.000 vogliono cantare perché hanno una bella voce ma solo poche centinaia ti sanno citare quattro produttori validi che non siano i soliti Rick Rubin, Ryan Tedder, ecc. In America ci sono producer di 22-23 anni che hanno all’attivo delle hit multiplatino, vuol dire che hanno approcciato la musica con una curiosità particolare e hanno saputo mettere insieme sensibilità diverse. Nel pop italiano, ancora oggi, ci sono i soliti quattro produttori in croce.
Casi come l’accoppiata Big Fish con Marianne Mirage, Populous con i Sem & Stenn o Mace, che ultimamente sta lavorando con i nomi più diversi, come li consideri?
Ogni caso andrebbe analizzato a parte. Molto cinicamente ti posso dire che a volte operazioni di questo tipo rappresentano la mossa della disperazione: si pensa che se l’artista non ha funzionato in nessun modo è perché non ha ancora trovato il produttore giusto – che non è vero, è chiaro. In altri casi ci sono delle alchimie molto fighe e finalmente qualcuno sopra di loro che le accetta e decide di procedere verso direzioni certamente meno rassicuranti. Per me è sempre positivo, speriamo che dia dei frutti.
E poi c’è la trap: che Rockstar di Sfera Ebbasta faccia tre dischi di platino mentre l’ultimo di Emma Marrone non abbia superato l’oro è un problema?
Il problema, per chi fa i dischi di Emma Marrone come quelli di altri, è capire che sono cambiate molte cose e che non si può rimanere sempre nella stessa comfort zone. Ci sono cantanti che raramente si mettono in discussione, come c’è una carenza di teste giovani, non solo tra i produttori ma anche nei management ed in tutta la filiera del music industry. Poi va detto che il vero successo non è sempre rappresentato dalle certificazioni FIMI. Per dire, Ghali non fa ancora sold out in tutti i palazzetti. Al momento gli unici che davvero stanno spopolando in ogni mercato possibile – streaming, vendite, radio, live, ecc – sono i Thegiornalisti.
Compari tra gli autori di Riccione, che ruolo hai avuto?
Ho fatto la cosa che, molto probabilmente, non mi sarà mai riconosciuta abbastanza, ovvero convincere Tommy e Dario Faini a non buttare via il pezzo dopo la prima mattinata di scrittura. Per il resto ho contribuito ai testi, mentre la grande quantità delle melodie è tutta di loro due. È stato il primo momento in cui Tommy si è staccato dalla sua zona di conforto, pur mantenendo una grande consapevolezza di cosa stesse facendo. Dario ha saputo dagli le risorse giuste in quel momento. Lui è un produttore molto esterofilo, è uno che si pone costantemente l’obiettivo di rimanere aggiornato, che ogni sei mesi decide di dare una rinfrescata al suo reparto macchine e che va in giro per l’Europa a sentire concerti. È chiaro che una figura così, affiancata a Tommaso, possa creare qualche perplessità ai fan della prima ora.
Prendi Felicità Puttana: la base è impeccabile, le melodie son belle e pure il testo regge, è l’insieme che non mi convince ancora. È difficile far convivere sonorità iper-moderne con un stile di scrittura sostanzialmente retrò?
Sentendo il disco probabilmente lo capiremo meglio tutti. Io non l’ho ancora sentito per intero ma, dei tanti episodi che ho ascoltato, ti posso dire che sarà un passo avanti bello tosto e molto del merito va al suo manager Nicola Cani, che forse è il vero produttore occulto dei Thegiornalisti. Dario è barocco, è epico, lo vedi sia nelle canzoni che scrive come autore ma anche nel suo progetto Dardust. Magari a qualcuno non piacerà, ma secondo me la qualità ci sarà e ci sarà alla grande.
In America è facile che i generi si mescolino tra di loro e le collaborazioni tra artisti pop, rap e trap sono all’ordine del giorno. Vedremo mai Laura Pausini con il feat. di Sfera Ebbasta?
Io un binomio del genere non me lo auguro. Vedere insieme Ariana Grande e Kendrick Lamar non è così assurdo, sia per l’età anagrafica, sia per le metriche delle loro canzoni, la Pausini con Sfera non sarebbe altrettanto credibile. Se le collaborazioni non sono forzate possono essere utili, d’altronde Michele Bravi, Francesca Michielin o Elodie sono sicuramente più intrippati di queste cose qui rispetto alle produzioni classiche. Che Carl Brave, Fabri Fibra e Francesca siano oggi in classifica – non so se è solo hype o se hanno davvero convinto il pubblico – è molto positivo. Non so se qualcosa si stia davvero aprendo, ma spero che qualcuno approfitti di questo momento.
Quali sono le canzoni che hanno alzato l’asticella negli ultimi anni?
Penso che ce ne siano state molte. Ti Fa Stare Bene di Caparezza era un singolo clamoroso, idem Pamplona o Stavo Pensando a te di Fibra, oppure Luca Lo Stesso di Carboni. Esistono hit che poi lasciano un segno e spesso, se vai a vedere le penne che ci sono dietro, trovi autori in grado di sintetizzare il passato e gli aspetti più solidi della nostra tradizione, ma lo fanno in modo fresco. Che poi è quello che ha fatto Lucio Dalla quando ha smesso di scrivere i dischi con Roversi, non si è sentito più in dovere di mantenere uno spessore letterario altissimo e ha iniziato a fare quello che, poi, ha portato avanti Carboni quando si è messo scrivere canzoni come Fragole Buone Buone.
Chi è l’autore più sottovalutato oggi?
Forse io? (ride). Scherzi a parte, non direi che ci sia il rischio di essere sottovalutati oggi, anzi. Spero di non conoscerlo ancora l’autore che mi dà la sberla. Tanti vogliono fare questo mestiere perché hanno capito che è molto remunerativo, ma bisogna arrivarci con la dovuta preparazione.
Allora dimmi chi è quello su cui punti di più?
Davide Petrella, ha una facilità di scrittura allucinante. Mi piace sempre rubargli delle cose, capire come fa ogni volta. Oppure – e sembra una paraculata perché siamo stati insieme fino all’altro ieri – credo che Rocco Hunt abbia il potenziale per diventare un autore pop mostruoso e, secondo me, nel prossimo disco lo si capirà a dovere.
Bologna è un regola è il tuo capolavoro?
Probabilmente è la cosa più importante che abbia mai scritto, sì. Spero che almeno altre tre di quella portata riesca a metterle a segno, ma in genere di pezzi così ne scrivi quattro-cinque in tutta la vita. E non c’entra la Siae o le certificazioni, mi riferisco proprio alla canzone: nel momento in cui Luca Carboni ti dice “hai fatto il seguito di Silvia lo sai che io non sono mai riuscito a scrivere”, ecco, per me sono cento platini. È un brano che mi rappresenta completamente ma, cosa miracolosa, se uno non sa che l’ho scritta io può pensare che l’abbia scritta lui. Per un autore non c’è risultato più grande.
Immagino che anche infilare la parola “bestemmiarti” in brano ad alta rotazione radiofonica non deve essere stato male, no?
(ride) In Ogni Angolo Di Me di Emma è stato il primo pezzo che ho scritto con Dario e nasce da un brano pensato per 100 giorni da oggi ma che, ai tempi, mi sembrava troppo vecchio per quel disco.
Tu che spiegazione ti sei dato sull’esplosione che, in meno di due anni, ha avuto la musica indie italiana?
Credo che gruppi come gli Amor Fou – o nomi che facevano numeri anche più interessanti, come Dente ad esempio – non abbiano mai saputo usare la melodia, anzi la censuravano. Se prendo un artista che conosco benissimo e che stimo molto, Colapesce, e lo paragono con Calcutta, la differenza sta proprio nell’approccio melodico. E dipende da come sei fatto, puoi imparare ma non puoi nemmeno forzarti. Stessa cosa vale per il pubblico: se dieci anni fa Brunori Sas scriveva una canzone che ricordava vagamente Carboni, tutti si indignavano, oggi finalmente Luca è visto come uno dei padri del pop italiano contemporaneo. Abbiamo perso una sorta di verginità, ci siamo tolti un po’ di quell’integralismo – che ci è tanto piaciuto, sia chiaro, io mi sono ascoltato i June of 44 per secoli – e abbiamo riscoperto il piacere di cantare. E non vuol dire che siamo regrediti alle canzoncine sulla spiaggia, una persona canta in moltissimi momenti delle sua giornata e, di conseguenza, servono tanti brani da cantare. È una cosa bella. Il pop, innanzitutto, è questo.
Crediti foto:
Corinne Barlocco