Dev Hynes, in arte Blood Orange, aveva tirato fuori dal cilindro due anni fa un disco mirabile restituendo, in musica, l’estetica delle sottoculture gay latine e nere nella New York degli anni Ottanta: un funk angelico per piste da ballo e per camerette solitarie che, nonostante le premesse, non cedeva un singolo millimetro al feticismo passatista che può guastare le uova anche nel più promettente paniere R&B.
Negro Swan riparte da lì, mettendo in mostra i lati oscuri dell’incredibile potere di fuoco creativo di Dev: “Un’esplorazione della mia depressione e di quella di molti altri neri. Uno sguardo onesto sull’esistenza dei neri e sulle ansie delle persone queer e di colore. Una ricerca sui traumi infantili e recenti e sui modi che ci consentono di superarli”.
I toni si fanno chiaroscurali, malinconici a tratti, ma l’elemento che emerge con maggiore forza è uno strenuo senso di resistenza e di speranza che ci piace leggere come il tentativo di proiettare una luce oltre lo steccato di questi tempi stupidi.
La voce narrante della giornalista e attivista transgender Janet Mock è il filo conduttore di un album più frammentario rispetto al precedente, ma che proprio nella sua multiformità disvela l’enorme talento di Blood Orange: non cerca la hit, non presenta canzoni che balzano all’orecchio prima di altre, si limita a snocciolare un incredibile flusso di intuizioni musicali, meravigliosamente cesellate e arrangiate, che si compongono nella regale compiutezza d’insieme solo ad album concluso.