Proprio in queste ore a Strasburgo si parla di Ungheria. L’Unione europea sta “processando” Viktor Orbán e valutando, attraverso il voto parlamentare, eventuali sanzioni, anche pesanti, contro l’atteggiamento ribelle e provocatorio esibito nei mesi scorsi dal governo di Budapest, accusato di non rispettare i valori fondanti di quei Ventotto che sono in procinto di diventare Ventisette a seguito del bye-bye inglese. Intanto in Svezia si cerca di capire che governo si può fare a seguito delle elezioni di domenica scorsa, in cui la destrissima dei Democratici Svedesi ha ottenuto un risultato non esaltante ma comunque in crescita – e sufficiente ad alterare le consuete aritmetiche politiche dei governi di Stoccolma. E in vista delle elezioni bavaresi di metà ottobre – con buona pace della Spd, già tradizionalmente pallidina intorno a München – la vera competizione è tra una locale Csu, sempre più distante (leggi: sempre di destra) dalla sorella nazionale Cdu di Frau Merkel eppure in caduta libera elettorale, e gli hardliner di Alternative für Deutschland, candidati a sostituire i socialdemocratici come secondo partito.
Le parole che martellano l’opinione pubblica europea – peraltro in perfetto ton sur ton con quello che accade anche altrove, dalla Trumplandia al Brasile – sono sempre le stesse: sovranismo, populismo, antieuropeismo. Sono etichette spesso ambigue. Per esempio, quelli che in quanto indipendentisti dovrebbero essere i più sovranisti di tutti, e cioè i partiti secessionisti catalani e scozzesi, non sono per nulla sovranisti in quel senso là e, salvo eccezioni minoritarie, sono anzi turboeuropeisti. I populisti, poi, si dividono quantomeno in populisti di destra (dalla Lega a tutta la cosmogonia dei partiti nordici e scandinavi del “padroni-a-casa-nostra”), populisti di sinistra (Podemos in Spagna, ad esempio) e populisti boh (i Cinque Stelle), nonché tra populisti orgogliosi di esserlo e populisti che rifiutano sdegnosamente l’etichetta. E anche gli antieuropeisti si dividono tra quelli che proprio sono diffidenti verso quella istituzione e quella moneta comune e quelli che invece, specie nel Nord del Vecchio Continente, in quella istituzione e in quella moneta comune continuerebbero a starci benone se soltanto fossero allontanati dall’euro i “puzzoni” (i greci, certo, ma anche gli italiani…) e dall’Ue almeno due terzi dei Paesi che ne fanno parte.
In vista delle elezioni europee dell’anno prossimo, si inizia già a far di conto per capire se possa verificarsi un patatrac e che tipo di patatrac. Forse, una maggioranza di euroscettici radicali è ancora improbabile, ma esistono anche le cosiddette minoranze di blocco che possono costringere chi non ne fa parte ad alleanze contronatura e a un ulteriore indebolimento del sistema. È comunque difficilissimo, peraltro, collocare in caselle precise i singoli movimenti politici. Basti pensare che fino a oggi il partito di Orbán, Fidesz, è incredibilmente rimasto nel Partito popolare europeo insieme con Angela Merkel e Jean-Claude Juncker. Proprio in questi giorni, a margine della discussione sulla deriva illiberale dell’Ungheria, molti nel gruppo popolare di Strasburgo stanno facendo pressione per la cacciata dell’indisciplinato magiaro, ma, visto che Fidesz è tra tutti i partiti popolari europei quello che ottiene risultati di gran lunga migliori nel suo Paese (il 49,3 per cento nell’aprile scorso), finora il gruppo se l’è tenuto stretto per ragioni numeriche e per interessi che si sarebbero definiti di bottega prima che i mondialisti al soldo di George Soros blablabla, al margine delle loro trame per la sostituzione etnica blablabla, complottassero per la distruzione del tessuto di piccoli negozi e, appunto, botteghe blablabla per convogliare masse di cittadini espropriati delle loro scintillanti lirette e dracme e pesetas e blablabla verso centri commerciali e ipermercati che, stando aperti la domenica, stanno «distruggendo le famiglie italiane» e blablabla (disclaimer: si scherza).
In ogni caso, tra tante sfumature, tante nuances, tante contraddizioni che rendono molto agitato il sogno salviniano di una Lega delle Leghe, ma ancor più agitato il sonno di chi a questa Europa, seppur molto perfettibile, ci tiene, si capisce bene come da qualche tempo a questa parte, almeno nella comunicazione socialnetworkian-mediatica, la parola che funziona davvero sia soltanto una: immigrazione. Questo è il tema su cui Matteo Salvini e Viktor Orbán possono cementare antiche amicizie, Marine Le Pen per esempio, e cercare nuovi interlocutori in tutta Europa. Ma attenzione: non soltanto sul populismo e sull’antieuropeismo e sul sovranismo, ma anche sull’immigrazione c’è ora concorrenza. E arriva da sinistra.
È il caso del nuovo movimento Aufstehen (traducibile con un più letterale “In piedi” o con un più libero “Su la testa”) fondato dalla tedesca Sahra Wagenknecht. Cresciuta in Germania Est, padre iraniano e madre tedesca, già orgogliosamente iscrittasi alla Sed, il partito comunista della DDR, all’inizio del 1989 (sì, nel 1989!), poi una lunga carriera nella Pds e nella Linke, i partiti tedeschi della sinistra radicale e postcomunista, infine un matrimonio con Oskar Lafontaine già ministro delle Finanze Spd a Berlino e poi fuoriuscito a sinistra dal partito in polemica con Gerhard Schröder, Sahra Wagenknecht è sempre stata rossissima, così rossa che più rossa non avrebbe potuto. Il suo Aufstehen, per ora, non è un partito ma un movimento crosspartitico che, dalla sinistra-sinistra, cerca di guidare la riscossa del centro-sinistra coinvolgendo esponenti della Spd e dei Verdi nonché della cosiddetta società civile. Un nuovo partito un po’ populista, che podemizza, tsiprasseggia e propone corbynerie? Sì, ma non è questa la novità.
Lo scopo principale del partito è recuperare in extremis gli elettori che votavano a sinistra e che sono passati ad Alternative für Deutschland o lo farebbero o che lo faranno. E quindi la novità è questa: un discorso anti-immigrazione, seppure un po’ dissimulato e molto negato, fatto dalla sinistra-sinistra. Che poi, non è tanto una novità neppure questa, visto che anche la prima lama della gauche transalpina, il leader de La France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, non è nuovo a uscite ruvide – e criticatissime – non proprio immigrants friendly. L’organizzazione politica di queste evidentemente non più inconfessabili pulsioni della sinistra radicale non è probabilmente una buona notizia per l’Europa e per il mondo. Ma non è nemmeno una buona notizia per chi, Salvini e Orbán in testa, sogna di costruire una paradossale maggioranza anti-europeista in Europa usando la parola “immigrazione” come levigatrice di tutte le differenze tra populisti, sovranisti e antieuropeisti. Perché ora anche la comune lotta contro l’“invasione” può non essere sufficiente a sommare le forze nel Parlamento di Strasburgo e fuori.