Per una larga fetta del pubblico generalista, fino a pochi mesi fa Piotta era rimasto quello del Supercafone, della Mossa del Giaguaro e della Grande Onda. In realtà nei suoi oltre vent’anni di carriera non ha mai smesso di produrre musica (sua e altrui) di qualità, lavorando a testa bassa e fregandosene di inseguire quell’hype che aveva generato a sorpresa (soprattutto sua) alla fine dei ’90. Nel 2018 il suo nome è tornato sulla bocca di tutti grazie alla sigla di Suburra, serie Netflix tra le più apprezzate dell’anno; anche stavolta, però, si è in qualche modo defilato da quel picco di notorietà. Anziché sfruttarla e buttarsi in un progetto su quella falsa riga, si è preso il rischio di tornare con Interno 7, un album personale e intimista che guarda soprattutto al passato, pubblicato in due tranche. “In effetti ero un filino ansioso all’idea di uscire con un disco così” confessa ridendo. “Per me era legato a una necessità: non avevo pensato di mettermi così a nudo, all’inizio i pezzi intimisti dovevano essere solo un paio. Poi ci ho preso la mano”.
La struttura della tracklist è divisa tra lato A e lato B come per vinili e musicassette, il titolo richiama la casa della tua infanzia, i rimandi agli anni ’90 sono molto frequenti. Possiamo definirlo un album nostalgico?
Sicuramente quell’elemento è molto presente, anche se come persona non temo il futuro e ho sempre voglia di guardare avanti. Però ultimamente mi sono fermato parecchio a riflettere su ciò che è stato. Forse perché ho superato i quaranta e c’è parecchio su cui riflettere… (ride) Ma principalmente sono stati i fatti della vita a farmi scattare quella molla. Nel giro di tre anni ho perso Primo Brown (dei Cor Veleno, scomparso nel 2015 a 39 anni dopo una lunga malattia, ndr), che non era solo un grandissimo rapper ma soprattutto un carissimo amico, la madre della mia compagna, che per me era una specie di vice-mamma, e mio padre. Proprio per via della sua morte, oltretutto, mi sono ritrovato a svuotare e smantellare la casa in cui sono cresciuto. La mia cameretta era rimasta ferma a quando ero ragazzino, ho ritrovato oggetti e ricordi che avevo dimenticato di avere: vecchie t-shirt, lettere, foto, videocassette. È stato un bel flash, che ha coinvolto tutti i sensi: vista, tatto, olfatto, udito…
Qual è stato il ritrovamento che ti ha colpito di più?
Già immaginavo di essere stato concepito a Tortoreto Lido, una località dell’Abruzzo a cui sono molto legato dove i miei andavano in vacanza. Ho ritrovato una lettera che raccontava proprio questo, e specificava anche il luogo in cui è accaduto, che incredibilmente è la stessa casa dove oggi vive il regista del video di Solo per noi, Glauco Citati, che non a caso abbiamo ambientato proprio lì. E siccome sono profondamente convinto che le coincidenze non esistono, mi ha davvero colpito tantissimo. Ho pensato fosse destino.
Oltre agli inediti veri e propri, in Interno 7 ci sono anche alcuni tuoi brani storici riarrangiati al 2018, una cosa che a volte hai fatto anche nei dischi precedenti, ma mai così spesso. Perché stavolta sono così numerosi?
Esatto, di solito ne metto almeno uno per album. Stavolta, però, ho voluto abbondare e ridare voce a mie vecchie canzoni che mi sembravano giuste per questo disco, sia per atmosfera che per tipo di scrittura, riarrangiandole e reinterpretandole per dare una nuova veste e maturità stilistica all’insieme. Volevo anche valorizzarle, perché magari agli ascoltatori più giovani erano passate inosservate: vedi Un’estate ed è finito con Primo, che valeva la pena far riscoprire a chi se l’era persa ai tempi, in ricordo di un incredibile talento che purtroppo non c’è più.
Ecco, a proposito: se tu dovessi raccontare a un quindicenne di oggi chi era Primo Brown e cosa rappresentava per te personalmente e per la scena hip hop della tua generazione, cosa gli diresti?
Era una persona splendida, innanzitutto. Vivere la scena romana negli anni ’90 era un’esperienza bellissima e molto particolare, perché noi non avevamo scelto un genere musicale che andava di moda, ma una cosa di nicchia, che non faceva e ascoltava quasi nessuno. Questa passione comune ci aveva uniti davvero, anche se magari avevamo tutti personalità diverse. Eravamo in pochissimi, ci potevamo contare sulle dita di due mani, e portavamo in giro la nostra musica e la bandiera dell’hip hop, prendendo treni che attraversavano l’Italia, dividendo le spese e i pochissimi guadagni, le piccole glorie e i fallimenti. Nessuno poteva immaginare come sarebbe andata a finire: ci siamo buttati in maniera irrazionale, con grande coraggio. Sono emozioni che è impossibile dimenticare, e Primo è stato una parte fondamentale di quel periodo, diventando un punto di riferimento artistico per tutti. Le sue strofe resteranno per sempre nella storia del rap italiano: sicuramente avrebbe meritato ancora più successo e più tempo, e sicuramente avrebbe fatto grandi cose anche per le nuove generazioni. Non ha mai smesso di prodigarsi per l’hip hop, anche in periodi in cui i media e il pubblico si erano dimenticati del rap, e ha dato una mano a tantissimi rapper emergenti mettendosi in gioco personalmente. Vedeva in loro quel seme che noi avevamo piantato tanti anni prima, e li aiutava non per interesse, ma per vero altruismo.
Paradossalmente, ed è una cosa molto triste e fastidiosa, a volte si ha l’impressione che molti siano arrivati ad apprezzare davvero la sua musica e la sua generosità solo ora che non c’è più…
Come amico, non posso che essere contento se il suo ricordo resta vivo, indipendentemente da tutto. Ben venga anche chi all’inizio non lo spingeva più di tanto e ora ci ha ripensato. Anche perché stiamo parlando di uno degli mc più forti e prolifici della storia del rap italiano. A una settimana dalla sua morte, ci siamo riuniti per ricordarlo in una serata speciale di Welcome 2 the Jungle in cui suonavamo soltanto canzoni in cui era presente anche lui: alla fine si erano fatte le quattro e mezza del mattino ed eravamo a quota duecentosettanta, tra featuring e pezzi suoi, e ci avanzava ancora materiale. Nonostante sia morto così giovane, la quantità e la qualità dei suoi brani è impressionante.
Tornando a Interno 7, invece, una delle collaborazioni più curiose è quella con il poeta anonimo Er Pinto. Per chi vive fuori Roma, ci racconti qualcosa in più?
Non è propriamente un rapper, ma fa street poetry, che è un mondo che a me piace moltissimo, perché cerca di rendere contemporanea una cosa che per molti ormai è desueta. Ha cominciato con un collettivo molto noto dalle nostre parti, i Poeti der Trullo, anche loro anonimi per scelta, perché vogliono che la gente si concentri su ciò che dicono e non su chi sono. Collaborare per una canzone era perfetto, perché può dar voce alle sue parole senza svelare la sua identità. Quella di mescolare rap e poesia era una cosa che avevo già sperimentato per 7 vizi capitali, la sigla di Suburra, anche se in quel caso era Il Muro del Canto a occuparsene, e per questo disco mi sembrava ideale riprovarci.
A proposito della sigla di Suburra, dopo il suo successo molti si sarebbero aspettati che tu sfruttassi quel traino e facessi un disco in linea con quel pezzo: invece sei andato proprio nella direzione opposta.
È un mio pregio e un mio difetto, a seconda di come la guardi: se avessi l’abitudine di replicare una formula vincente forse la mia carriera sarebbe decollata molto di più, ma non lo faccio mai. È una scelta che ho fatto praticamente da subito: con Supercafone ero esploso, ma anziché continuare a fare qualcosa di simile me ne uscii con La grande onda, che si smarca molto da quel mood. È andata così anche in questo caso: rifare un’altra 7 vizi capitali sarebbe stata solo una mossa commerciale, e non mi interessa. Mi piace variare e soprattutto stupire ogni volta, me stesso più che gli altri. È più stimolante
La Grande Onda è anche il nome dell’etichetta indipendente che hai fondato. È un periodo storico in cui molti, soprattutto nel rap, snobbano le etichette e hanno riscoperto l’autoproduzione, attirati dalla forza promozionale dei social. Com’è gestire una piccola label in un momento del genere?
Quando l’ho aperta era il 2005, un periodo in cui l’hip hop non se lo filava più nessuno. Negli anni ho prodotto tanti artisti di generi diversi, oltre ai miei dischi: mi lascio guidare dall’istinto più che dal ragionamento, produco gente che mi fa piacere ascoltare. Come gli Inna Cantina (una band reggae), Daniele Coccia (il cantante de Il Muro Del Canto), Francesco Santalucia (che fa musica strumentale e molto sperimentale), i Black Beat Movement (uno dei collettivi neo-soul e funk più interessanti in Italia). Anche qui cerco di variare sempre, per non annoiarmi. Ho un po’ più di difficoltà con il rap, ultimamente: qualcosa abbiamo fatto uscire, come i dischi di dj Myke, ma le proposte che mi arrivano includono spesso roba trap, che non mi ispira moltissimo.
A maggior ragione, la domanda sorge spontanea: ti riconosci nel rap italiano di oggi?
Sì, ma allo stesso tempo ho i brividi: il raggio d’azione si è talmente allargato che è un genere molto bipolare. Mi riconosco in gente come Mezzosangue, Rancore, Frah Quintale, Merio, Coez, Carl Brave x Franco126, ma poi sento la trap e, brrrr. Il suono non mi dispiace, ha un che di malinconico e lento che mi ricorda il trip hop, però quando sento certi testi mi viene il voltastomaco.
Chiudiamo buttandola in vacca: il tuo precedente album si intitolava Nemici anche perché per un lungo periodo eri finito nel mirino di autori tv a caccia di concorrenti vip per i peggio reality show. Sono passati tre anni: hanno capito il messaggio o ti cercano ancora per reclutarti?
Non farò nomi perché in questo caso non si tratta di mail ufficiali ma di mezze proposte a voce, però sì, continuano a cercarmi, magari fingendo di sondare il terreno a titolo informativo, della serie “So che l’idea ti fa cagare, ma io ci provo comunque”… (ride) Per me la priorità resterà sempre il rispetto che ho per me stesso e per il pubblico: so che se volessi potrei guadagnare tanti soldi riciclandomi nei reality, ma non mi viene neanche la tentazione.