Quella dei Blossoms è una storia per certi versi atipica, quasi anacronistica. Cinque ragazzi da Stockport, cittadina inglobata nella mastodontica periferia di Manchester, che tra lavoretti saltuari per pagare gli strumenti o sale prove di fortuna messe in piedi nel magazzino del nonno si conoscono più o meno tutti dai tempi delle scuole superiori. Un paio di EP e un album omonimo li hanno poi portato fuori dai call center o dalle hall degli alberghi in cui erano impiegati per affacciarsi prepotentemente fra le vette delle classifiche UK, acclamati dalla critica come l’unica band attualmente in grado di riportare la scena britannica a quegli albori ormai dispersi o relegati alla prima metà degli anni 10.
Di quella ‘Cool Britannia 2.0’ rimane infatti ormai poco, con i soli Arctic Monkeys usciti a testa alta dalla marea che ha trascinato lontano dai riflettori nomi all’epoca onnipresenti tra le pagine di NME, dai Libertines ai Kooks, e allo stesso tempo ridimensionato potenziali fuori serie come Kasabian o Franz Ferdinand. D’altra parte, se la lista delle meteore è lunghissima – Fratellis, Wombats, Kaiser Chiefs, quasi tutti i The qualcosa – in altri casi ci si trova davanti addirittura a buchi neri, come per i Klaxons, al tempo considerati fra le migliori band della scena, tristemente inattivi ormai da anni.
«Il nostro obiettivo è fare degli album che rimangano, non ci interessa fare hit usa e getta, vogliamo avere un impatto che resti impresso e non si consumi con il tempo», racconta il frontman Tom Ogden, a pochi giorni dal concerto milanese, fissato il prossimo 12 ottobre al Tunnel. «D’altronde ci siamo sempre ispirati agli Oasis, vogliamo diventare come loro», aggiunge, raccontando i suoi Blossoms con una naturalezza in cui armonizza la spavalderia ‘ingenua’ dei suoi 25 anni a una self confidence fuori dal comune.
Siete molto giovani e già ambiziosi, non avete paura di cadere?
Direi di no, non abbiamo paura di essere ambiziosi e non ci spaventa cercare il massimo: non ha senso fondare una band se si vuole rimanere ‘piccoli’ o se si ha paura di volare in alto. Il nostro obiettivo è diventare una di quelle band che continuano a colpire chi le ascolta anche ad anni di distanza dall’uscita del disco, l’opposto di chi resta nel ‘potenziale’ e finisce poi nel dimenticatoio.
Insomma, ne avete fatta di strada da quando lavoravate in un call center. All’epoca ti saresti mai aspettato la prima posizione in classifica con l’album di debutto Blossoms?
L’unica cosa che volevo era diventare un musicista, non facevo altro che pensare alle nostre canzoni, giorno e notte, ma non avrei ma immaginato che tutto ciò si sarebbe concretizzato, nemmeno in un milione di anni. Quando siamo usciti con il primo disco avevamo praticamente appena formato la band ed era impensabile che il nostro primo vero lavoro attirasse così tanto l’attenzione.
Il vostro è un percorso ‘atipico’ rispetto al panorama contemporaneo: niente talent, niente casi nati dai social network ma sala prova fin da giovanissimi e un rapporto che nasce fra i banchi di scuola. Vi sentite una band fuori dal tempo?
In realtà no, non ci sentiamo una band ‘old fashioned’, piuttosto direi che è nato tutto in maniera spontanea, senza calcolare come o quando uscire, ma abbiamo sempre lavorato molto naturalmente. Alcuni di noi sono amici da sempre, con altri ci siamo conosciuti più tardi e sono entrati nella band. Certamente la nostra storia è abbastanza tradizionale, di quelle che ormai è sempre più raro sentire nel mercato odierno, ma non per questo ci sentiamo una rock & roll band classica. A partire dal suono, che abbiamo sempre voluto contemporaneo.
Infatti nonostante abbiate sempre dichiarato di ispirarvi ad Arctic Monkeys, Oasis o Stone Roses avete sonorità decisamente lontane da quei riferimenti, anzi, sembrate addirittura più vicini agli 80’s.
Dagli Oasis e da quelle grandi band di cui parlavi abbiamo cercato di prendere l’attitudine e la determinazione, mentre per il nostro sound sono stato ispirato prima di tutto dalla collezione di dischi dei miei genitori, quei dischi con cui sono cresciuto. Un’altra grande fonte d’ispirazione sono i videogame, in particolare GTA Vice City, ambientato nell’86. Ho perso ore e ore davanti a quel gioco, e credo che la colonna sonora mi sia entrata in testa.
Un suono che sembra aver trovato una definizione più netta nel vostro ultimo album, Cool Like You.
Credo che tra il primo disco e quest’ultimo il suono non sia poi così diverso, penso sia più il frutto di un’evoluzione, di un cambiamento naturale, niente di drastico, non è che ci siamo messi a fare rap. Abbiamo cercato di mantenere un equilibrio tra le nuove idee e i nostri precedenti lavori, per noi è fondamentale avere un’identità sonora che sia riconoscibile e allo stesso tempo che ci consenta di maturare.
Lo scorso anno siete andati in tour con Noel Gallagher, cui avete aperto i concerti. Com’è stato condividere il palco con uno dei vostri più grandi punti di riferimento? Vi ha dato consigli per raggiungere “l’obiettivo Oasis”?
Con Noel è stato un tour incredibile, abbiamo fatto i migliori concerti della nostra carriera. All’inizio eravamo un po’ agitati ma lui ci ha messo subito a nostro agio e ci ha fatto maturare moltissimo, non credevo fosse possibile crescere così tanto in un tempo relativamente breve come quello di un tour. Per quanto riguarda i consigli, non ci ha dato nessun indirizzo specifico, sappiamo bene che per diventare una grande band dobbiamo trovare un percorso che sia solo nostro.
Insomma, per voi sembra non ci saranno risse alcoliche nei camerini o chitarre sfasciate contro gli altri componenti della band.
Chi lo sa, non si può mai dire (ride, nda).