All’Unipol Arena di Casalecchio di Reno va in scena l’ultima tappa del Shiny & Oh So Bright Arena Tour degli Smashing Pumpkins, con cui la band di Chicago celebra i propri 30 anni. Si tratta anche dell’unica data italiana della tournée che anticipa la pubblicazione del nuovo album, ma ciò che veramente conta per noi vecchi fan è che per la prima volta dopo tanti anni Billy Corgan si presenta con la storica formazione (quasi) al completo. Ci sono il vecchio fido scudiero James Iha alla chitarra e Jimmy Chamberlin a picchiare i tamburi. A completare la formazione, poi, l’affidabile e ormai più che rodato Jeff Schroeder alla sei corde, Jack Bates from Manchester al basso e la tastierista Katie Cole.
Dentro non c’è un buco. Tutto esaurito: quasi 15000 anime. Oggi, un sold-out così non è poco.
Sia chiaro: chi vi scrive arriva a Bologna senza grandi aspettative. Poche speranze e tante paure, perché Corgan, diciamocelo, non sembra essere invecchiato per niente bene.
Per anni sono stato il “proto-fan” di Billy Corgan. Un adolescente con un bel drammone familiare da superare, che passava le ore in cameretta a suonare e cantare pezzi come Mayonaise ( “I just wanna be meeeee”) o Today. E chi come me ha veramente vissuto davanti allo stereo e sotto il palco gli anni d’oro delle “zucche” non ha dubbi a riguardo: tutto quello che Corgan ha scritto e inciso dopo il doppio album Machina ( I e II) è musicalmente irrilevante o quasi. La linea di demarcazione è quella. E invece.
E invece i ragazzi ( ma sì, diciamo “ragazzi”…) danno vita ad uno show di oltre 3 ore che è letteralmente una fucilata. Non si tratta di nostalgia, o meglio, non solo quella. Parliamo di una qualità e di un’intensità nell’esecuzione che sono vicinissime a quelle dei vecchi fasti e fa niente se, come è normale che sia, manca gran parte di quella rabbia giovanile che il buon vecchio Billy, weirdo com’era ( e come è ancora), ti sparava in faccia. Gli Smashing Pumpkins sono William Patrick Corgan e viceversa, ma è evidente come il contributo di quelle che finalmente non sono più solo comparse sia fondamentale. La differenza c’è e si sente.
Avere Jimmy Chamberlin seduto a randellare le pelli dietro di te è come avere Franz Beckenbauer fisso in difesa durante una partita all’oratorio: là davanti puoi fare quello che ti pare. Del resto, Chamberlin, Matt Cameron e Dave Grohl per molti hanno rappresentato tre magnifici interpreti dello strumento e diversi modi di suonare la batteria all’interno di quello che va genericamente definito come Alternative Rock degli anni ‘90, o quantomeno quello di maggior successo.
Sipario ancora chiuso e lo show si apre con la strumentale Mellon Collie and the Infinite Sadness, tratta dall’omonimo album e ri-arrangiata con più fraseggi di chitarre. Poi il sipario si apre e arriva Lui, il deus ex machina. Solo. Con la sua chitarra acustica. Rintocco di campane e parte Disarm. Ma come, di già? Si, di già. Perché Corgan ci tiene subito a precisare chi siamo venuti a sentire e vedere, e se avessimo dei dubbi le immagini che scorrono sui maxischermi dietro di lui ce li tolgono. Si alternano: foto di lui bambino, lui adolescente, lui ragazzo, giovane uomo, il suo faccione in versione carta dei tarocchi, la sua versione rockstar con e senza folta chioma e chissà, potrei addirittura essermi perso il Corgan-Mickey Mouse in un attimo di distrazione. Sta di fatto che anche da solo Disarm la canta magistralmente spazzando via le paure per un suo presunto mal di gola che lo avrebbe costretto ad annullare il set acustico previsto per ieri a Milano. E’ una splendida canzone, e fa niente se si tratta, a seconda delle versioni, di un plagio o di una “libera reinterpretazione” di Sometimes dei My Bloody Valentine. Sono entrambe bellissime e va bene così. Del resto, tra le innumerevoli sonorità a cui si rifanno i Pumpkins ci sono di certo anche quelle Shoegaze.
Poi in successione arrivano Rocket, Siva e Rhinoceros. La prima sempre dal disco Siamese Dream, le altre dall’album di esordio Gish. I suoni non sono ancora il massimo. Sono un po’ troppo secchi e freddi e la batteria è fin troppo muscolare. La voce di Corgan, poi, forse è un po’ troppo “fuori” nel mix, ha un volume molto alto rispetto agli altri strumenti. E’ qualcosa che si avverte anche negli ultimi non memorabili album. Dal vivo però, forse poiché meno “perfetta”, questa voce onnipresente per fortuna non reca il fastidio che a tratti può provocare sul disco. E poi vaglielo a dire tu a Billy Corgan di abbassare la voce. Una voce che si odia o si ama la sua, un lamento nasale senza il quale non puoi nemmeno immaginare le sue canzoni.
Ecco la prima cover della serata: Space Oddity di David Bowie, uno dei miti indiscussi del frontman di Chicago. Forse qualche momento di imbarazzo sulle mossette e la teatralità durante l’esecuzione. Ma la canzone è ri-arrangiata, cantata e suonata molto bene. Poi Drown, un pezzo che rimanda al filone un po’ più psichedelico, tipico della primissima fase della band e che merita una breve digressione che può aiutare a far capire meglio cosa sono stati e cosa rappresentano oggi gli Smashing Pumpkins per molti dei presenti allo show.
Questo pezzo fu inserito all’interno della memorabile soundtrack del film Singles di Cameron Crowe, un vero e proprio cult movie per ogni appassionato di musica e (sotto)cultura giovanile anni 90. La pellicola, oltre ad avere Matt Dillon come uno dei protagonisti, tra gli altri, vedeva i cameo dei Pearl Jam, e dei mai troppo compianti Chris Cornell e Layne Staley degli Alice in Chains. La colonna sonora era una sorta di ALL STAR di quel periodo e non solo. A riascoltarla oggi sembra di essere di fronte ad un monumento innalzato alla scena di Seattle. C’era il mare con tutti i pesci: i già citati Alice in Chains, i Pearl Jam, i Soundgarden, i Mudhoney, i Mother Love Bone, gli Screaming Trees con la stupenda Nearly lost you, Jimi Hendrix addirittura. E poi, in chiusura, c’erano loro, gli Smashing Pumpkins con questo pezzo. Quasi un’investitura, perché chiudere un disco del genere con una propria canzone non era cosa da poco. Solo che, ops, loro non erano di Seattle.
Si narra che non furono poche le polemiche. Del resto, grunge o meno, le rockstar sono tutte primedonne e Corgan non è mai stato visto di buon occhio dalla fazione più dura e pura della scena grunge. Non che il nostro abbia fatto grandi sforzi per evitarlo o per farsi amare da tutti, ma la verità è che nel bene e nel male la band di Chicago non è mai stata veramente una band grunge e non è da considerarsi come tale. Corgan, infatti, nei sui anni di grazia, baciato e al tempo stesso sopraffatto dal suo immenso genio creativo, passava da un genere all’altro con estrema facilità e naturalezza. E, cosa più importante, con credibilità. Quello che per altri era mancanza di coerenza stilistica, per i fan degli Smashing Pumpkins rappresentava un’enorme ricchezza. All’interno dello stesso disco o comunque della loro discografia trovi gli elementi più disparati: il metal, a tratti quasi lo stoner, la disco (!), il pop, la new wave e il dark, il già citato shoegaze, la psichedelia e tanto altro, persino le ninne nanne. Ed è tutto tenuto assieme dal fatto che sia Corgan ad averlo scritto e che sia quasi tutto frutto del suo smisuratissimo, malatissimo ego.
Per intenderci: al momento di massimo splendore, dopo il granitico doppio album Mellon Collie, a cui seguì addirittura un box con decine di pezzi esclusi dai due dischi, a testimoniare la folle e straripante vena creativa di quel periodo, gli Smashing Pumpkins (leggi: Corgan) diedero alle stampe Adore, un disco fondamentalmente synth pop, dalle atmosfre estremamente cupe e dark che fu criticato non poco dai fan e per cui Corgan si sentì tradito dal suo pubblico. Un disco che se riascolti oggi non è affatto male. Anzi.
Ma il bello è questo, che i suoi dischi, insieme, sono come un unico concept album. Nessuno in quegli anni forse aveva una tale capacità (e voglia) di muoversi tra i generi, sfuggendo a qualsiasi definizione ben precisa. L’attitudine era ed è Rock’n’Roll, e tanto basta.
Torniamo al concerto, perché il bello viene ora.
I suoni sono molto migliorati e sul palco sono tutti caldi adesso. Dopo un intermezzo costituito da un video dove Corgan recita la parte di Billy Corgan che fa William Patrick Corgan, la band torna fuori e parte l’inconfondibile riff di Zero, l’inno al nichilismo della band. La suonano con tiro pazzesco e la canzone ha molti stop and go dove la voce rimane sola, quindi ti aspetti che il frontman faccia cantare il suo pubblico in delirio. E invece no. E no. Lui le sue canzoni se le sta proprio godendo e se le canta tutte da solo, ne è avido. Lui con le sue tuniche e le sue gonne nere è qui a dimostrare che è ancora il vecchio vampiro di una volta.
Siamo a ben otto pezzi e non ha ancora rivolto parola al pubblico, nemmeno un “ciaoitaliacomestai” e baggianate varie. Gli sta dando quello che vuole. Gli sta dando i veri Smashing Pumpkins. Personalmente, apprezzo.
Dopo Zero è la volta di Everlasting Gaze, forse uno dei pezzi meglio riusciti stasera. E’ cattiva, serrata e suonata da far digrignare i denti e far andare la testa su e giù. Durante la registrazione di Machina, l’album da cui è tratto il pezzo, Corgan aveva chiesto al produttore Flood di aiutarlo a tirar fuori un suono che facesse “sanguinare i muri”. Ecco, il suono è bene o male quello. Arriva a questo punto il bisogno di rifiatare un attimo ed ecco allora le ballatone Stand inside your love, sempre da Machina, 33 da Mellon Collie, Eye (scritta per il film Lost Highways di David Lynch) e la bellissima Soma, da Siamese Dream.
E’ poi il momento di James Iha, che è quello che interagisce di più col pubblico e a cui toccherà poi presentare anche la band. Sembra molto felice di esserci e sua maestà Billy gli concede di cantare la sua Blew Away. Durante l’esecuzione mi rendo conto, meravigliandomi un po’, di ricordare il testo persino di questa, e non importa se da lontano il buon vecchio James ad un certo punto stasera mi sembra Franco Franchi coi capelli lunghi.
Corgan risale in cattedra e dopo la commovente e intensissima For Martha, dedicata alla madre, suona To Sheila, sempre da Adore. Mi fanno felice e ci commuovono un po’ con la già citata Mayonaise (ed eccomi di nuovo a cantare “I just want to be meeeeeeeee”), poi Porcelina of the Vast Oceans e Landslide, una cover dei Fleetwood Mac già presente nel disco Pisces Iscariot. Nessuna pausa ed arriva uno dei pezzi più famosi, se non il più famoso della band. La valanga di rullate di Chamberlin è inconfondibile e ovviamente per Tonight Tonight è un tripudio.
Portano sul palco di nuovo il pianoforte ed ecco un’altra cover un po’ “scomoda”. Non so, io non vedo proprio il motivo di fare Stairway to Heaven. Ma se a Corgan non puoi dirgli di abbassare la voce senza rischiare che ti tiri una Stratocaster in testa, figurati se puoi distoglierlo dal fare Stairway to Heaven. E questo perché sotto sotto lui è sempre stato anche una pop star, e cosa c’è di più “pop” di un leggendario nostalgico inno rock come questo ad un concerto già di suo un po’ nostalgico?
Siamo a due ore e passa di concerto. Mai un calo di tensione, sono solidi. Sarò malfidato io, ma chi se l’aspettava? Ancora da Siamese Dream è tratta Cherub Rock, uno dei singoli di quello che da molti (me compreso) è considerato il vero disco-capolavoro di Billy & co. Dopo due intermezzi video, il secondo dei quali ad opera di Mark McGrath degli Sugar Ray, arriva la celebre e iconica 1979. Ecco, questo è un altro di quei singoloni pop che ti fanno dire: “Ma come è possibile che questa cosa sia stata scritta dalla stessa persona che ha scritto Fuck You [An Ode To No One]?”.
Segue Ava Adore, che per chi scrive si gioca con Everlasting Gaze il titolo di canzone meglio eseguita della serata. Groove, tiro, sonorità belle “ciccione” azzeccatissime. E’ una versione più rock’n’roll di quella sul disco ed è tutto così perfetto da risultare quasi meglio. Ah, e udite udite Corgan finalmente duetta un attimo col pubblico. Dopo Try try Try, The End is the Beginning is the End ( dalla colonna sonora di “Batman & Robin” del 1997) e Hummer, arriva Today, un’altra delle ballads più amate della band.
Siamo agli sgoccioli e Corgan pronuncia le parole magiche. “The world is a vampire” e poi l’inconfondibile linea di basso che segue è quella di Bullet with Butterfly Wings, uno dei pezzi più rappresentativi e “cattivi” della band. Siamo arrivati a quasi tre ore di concerto e se la suonano come se avessero cominciato 10 minuti fa. Parlare di pubblico in delirio è riduttivo.
Annunciano che il prossimo sarà l’ultimo pezzo e parte Muzzle, altra epica ballatona Corganiana. L’encore che chiude davvero il concerto è poi composto dal nuovo singolo Silvery Sometimes (Ghosts) e la cover Baby Mine dal film Dumbo, una di quelle cose che ti aspetti da lui, insomma.
Più di tre ore di concerto, 32 pezzi suonati, una scaletta perfetta per qualsiasi fan e non, con pezzi estrapolati solo dai dischi che “contano”: dal primo, Gish, fino a Machina, come volevasi dimostrare. Ed un motivo ci sarà.
Non manca nulla, è la summa delle sonorità che hanno fatto degli Smashing Pumpkins quello che sono: una band fondamentale di un decennio fondamentale per la musica di un certo tipo e tutto l’immaginario ad essa correlato. C’è come detto tutta la vena pop, c’è il dark, ci sono le deflagrazioni chitarristiche, il feedback, gli assoli “fischiati” marchio di fabbrica di Corgan, le mega schitarrate soniche di quella che è e rimane una guitar band e che, Seattle o meno, appartiene al gotha degli anni dei “chitarroni”, a cui seguirono e a cui si contrapposero, nei primi anni Duemila, le band indie-rock con le loro “chitarrine”.
A prescindere da qualsiasi considerazione nostalgica, quello di stasera è stato un concerto memorabile per chi c’era, perché alla fine ciò che e’ stato grande negli anni ‘90, oggi, suona grandissimo.
E chissenefrega se i nuovi singoli non son buoni e di come sarà il nuovo disco.
Grazie Billy.
Addio, Billy.