Manoocher Deghati, il fotoreporter che faceva succedere le cose | Rolling Stone Italia
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Manoocher Deghati, il fotoreporter che faceva succedere le cose

Del fotografo iraniano si è detto che non si trova dove le cose succedono, ma che le cose succedono dove lui si trova.

Manoocher Deghati, il fotoreporter che faceva succedere le cose

'Black Pharaoh' (2007), uno scatto del fotoreporter iraniano Manoocher Deghati

Manoocher Deghati (Orumieh, Iran, 1954) è un celebre fotoreporter di guerra. Una volta, in un raro periodo di tregua, si concesse un viaggio nel nord del Sudan, sulle tracce dei cosiddetti “faraoni neri” della XXV dinastia. Capitò in un villaggio alla Quarta Cateratta del Nilo, che di lì a poco, nel 2007, sarebbe stato sommerso per la costruzione della colossale Diga di Merowe. Un vecchio nubiano che impugnava il suo bastone nodoso gli chiese chi fosse e perché fosse arrivato fin là col suo strano armamentario. Manoocher gli raccontò che era un fotografo, e gli resta il dubbio di non essere riuscito a spiegare che cosa volesse dire. Il vecchio dichiarò che il faraone nero era lui.

A un certo punto la sua postura e l’inclinazione del sole proiettarono sul muro a secco l’ombra del faraone nero. Un momento prima o dopo, un movimento in più o in meno avrebbero dissipato la magia. Un colpo di fortuna, come devono essercene nella vita dei fotografi di ventura: ma quella fortuna bisogna prepararla. Essere lì in quel momento. Lui è stato lì in molti momenti cruciali: si è detto di Manoocher che non si trova dove le cose succedono, ma che le cose succedono dove lui si trova. Nel 2011, incaricato dell’ufficio mediorientale dell’Associated Press, arrivò al Cairo un giorno prima che scoppiasse la rivoluzione.

Nel 1978, diplomato in cinematografia a Roma, era rientrato per fotografare la rivoluzione di Teheran e la guerra tra l’Iran e l’Iraq, che sarebbe durata otto anni al prezzo di un milione di morti: furono sue famose copertine internazionali. Presto le autorità khomeiniste ne ebbero abbastanza e gli vietarono di uscire di casa con la macchina fotografica. Fuoriuscito, coprì le guerre di mezzo mondo. In Afghanistan lui e suo fratello Reza hanno costituito una scuola di fotografia, Aina – “Specchio” – dalla quale sono passati in migliaia: una ragazza si è guadagnata il Pulitzer.

È capitato anche a Manoocher di trovarsi nel posto giusto nel momento sbagliato: il più grave nel 1996 a Ramallah, dove fu colpito da un cecchino israeliano. Un collega della Reuter lo fotografò, caduto, prima che lo soccorressero, un po’ distante dal suo teleobiettivo: “Fu il mio primo tentativo di selfie, ma le forze vennero meno e l’obiettivo rotolò via”. La convalescenza durò un anno e mezzo: nel ricovero parigino agli Invalides potè fare un reportage sui militari feriti, compreso un reduce della Prima Guerra di 104 anni. Finalmente dimesso, andò a fare una fotografia alla Tour Eiffel.

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