Internet è un ricettario chimico che ci spiega come alimentare il nostro cervello con dopamina, endorfina, serotonina, ossitocina. Il crossfit e l’amicizia, la cioccolata e i sorrisi, il sesso e i gatti, i like e lo yoga, le coccole e il bricolage. La lista si allunga ogni giorno. A quanto pare non abbiamo altro scopo di vita se non quello di garantirci il migliore equilibrio neurochimico possibile.
Una mattina, un ricercatore dell’università di una qualche oscura provincia del Wyoming si sveglia con la luna storta e tormenta un centinaio di topi per dimostrare al mondo che il cricket – il nostro ricercatore si avvarrà allora di mazze-stuzzicadenti e di palline di cheddar – ci rende felicissimi. Cioè stimola il rilascio di un particolare neurotrasmettitore adatto allo scopo. Tra pochi anni potremmo valutare ogni oggetto o attività umana con un punteggio in mg di dopamina. Un cane = 10. Ma se è cucciolo (diciamo sotto i 9 mesi) = 15. Torneranno di moda i post-it, da appiccicare sui libri degli scaffali, sulle bottiglie del frigorifero, sulle fronti delle persone. Ci vanteremo: quello è un mio grande amico, guarda là, è un 19.
Già il 4 luglio 1776 i costituenti americani scrissero nella Dichiarazione d’indipendenza: “a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità”. Ancora non immaginavano che la felicità fosse soltanto la traduzione in sillabe umane del lavorio delle molecole. Oggi, che ci siamo emancipati dalla vaghezza della metafisica, sappiamo che quel buon demone (eu daimon) con cui i greci si riferivano alla felicità (eudaimonia) altro non è che un trasmettitore endogeno della famiglia delle catecolammine. E finalmente vediamo in ogni cosa un agrume pieno di millilitri di felicità tutto da spremere. Perfino il paradiso non potrà apparirci che un cortocircuito chimico grazie al quale l’anima, liberata dall’avarizia molecolare di questo universo, resterà in ammollo negli sterminati fiumi di dopamina sgorgati dalla generosità del buon Dio.
Si parla di gran ritorno dell’eroina, il cui consumo negli ultimi tempi è aumentato del 30%. Per forza: il post-it su una siringa carica di sostanza riporterebbe un punteggio invidiabile. Gli oppiacei sono così simili all’endorfina da riuscire a penetrare nella barriera protettiva emato-encefalica del nostro cervello per poi legarsi ai recettori endorfinici. I neurotrasmettitori sono prodotti all’interno, le droghe immesse dall’esterno: questa è la prima distinzione che impugniamo istintivamente. Quindi quello che viene da fuori è male, quello che viene da dentro è bene. Se il ragionamento tenesse, moriremmo di fame e benediremmo i tumori.
Sono paradisi sintetici, si dice allora. È una falsa felicità, si ripete. Come sa chiunque abbia un’infarinatura di filosofia delle neuroscienze o frequenti le stazioni dei treni, alla prova dei fatti non regge nemmeno questo argomento. Il dolore e il benessere sono sensazioni e, in quanto sensazioni, sono reali nel loro stesso darsi. Per definizione, non possono essere allucinazioni. La loro causa potrà essere falsa, ma non il loro effetto. O c’è o non c’è, punto.
Resta vero che l’eroina fa male e dà crisi d’astinenza e uccide. Non è poco, certo, anzi, è moltissimo. Questo è l’unico motivo che impedisce alla maggior parte delle persone di assumerla. A ben guardare non è nulla più che una casualità chimica o, per chi crede in un universo progettato, il risultato della discutibile bontà del buon Dio di cui sopra, che altrimenti avrebbe creato droghe prive di effetti collaterali. E il problema dell’esistenza sarebbe risolto. Se ti è capitato di assumere una qualche forma di oppiacei sai bene che ogni cosa, durante l’effetto, mostra un volto degno di amore: perfino stirare diventa un’occupazione libidinosa. Oggi che ci siamo liberati anche dal mito dell’oggettività, oggi che consideriamo il relativismo la prospettiva più onesta sulle cose, dobbiamo ammetterlo: quel mondo meraviglioso che ci circonda durante l’effetto non è una parvenza di mondo. In quei momenti, quello è il mondo.
Forse da qui a qualche decennio un tormenta-topi dell’Idaho sintetizzerà un oppioide a impatto zero e, con una formula alfanumerica lunga pochi centimetri, zittirà tutti i vangeli cristiani, i canoni buddisti, i saggi psicologici, gli how-to-be-happy da autogrill: redimerà l’umanità dal dolore. Guardie e ladri che si abbracciano e biascicano “sei tu il mio migliore amico”, Trump e Kim Jong Un che fanno a gara a chi voglia più bene all’altro (“Te ne voglio più io!, No, te lo giuro, io io!”), uffici postali dove ognuno vuole cedere il proprio numero all’utente successivo, morti arrese e serene.