È reale solo ciò di cui si può ridere. Questo assioma non scritto dovrebbe essere l’insegnamento più importante che i comici senior dovrebbero consegnare ai giovani che non sanno di cosa prendersi gioco. Il condizionale è d’obbligo perché in questi anni, poco alla volta, l’ironia – sopratutto in Italia – è stata infilata in un imbuto sempre più stretto. Ci sono categorie di persone o singoli individui che non vengono presi in esame negli sketch per evitare l’evirazione virtuale dell’aspirante – e poco convinto – Robin Hood. Mentre scrivo si può toccare tutti ma non si può sfiorare Roberto Burioni, il cui lavoro non si mette – ovviamente – in discussione. Eppure in passato la Satira con la S maiuscola si è permessa di scherzare persino sui santi, nello specifico su Padre Pio perculato prima dal sempre necessario Corrado Guzzanti e poi da Maurizio Crozza.
Un tabù analogo, in questi anni, è stato appoggiato sulla comunità GLBTQ (Gay, Lesbica, Bisex, Trans e Queer). Durante la stagione dell’emancipazione, necessaria per raggiungere un riconoscimento (pur sempre sommario) dello Stato, si sono evitate le risate sulle persone non eterosessuali. Gli sceneggiatori, il più delle volte coinvolti direttamente nel percorso legislativo, si sono sforzati di evidenziare le cose che le persone hanno in comune quando non sono impegnate a divertirsi come solo gli adulti sanno fare.
La conseguenza primaria di questo cambiamento è stata la progressiva scomparsa delle serie “tematiche” basate sulle differenze, fisiologiche, tra individui con un orientamento sessuale simile. In Queer As Folk piuttosto che the L Word l’omosessuale in borghese conviveva con quello sempre al centro della festa. In Grey’s Anatomy, invece, non c’è stato spazio per entrambi e la creatrice della serie (che in più di un episodio è sembrata essere l’undicesima piaga d’Egitto non prevista dalla Bibbia) ha preferito la lesbica normale a quella freak.
L’esclusione è sempre, soprattutto in questo presente scandito dalla moltiplicazione degli spazi e dei canali, una sconfitta. Perde chi non prova a ridere di tutti, anche delle persone che a un primo sguardo possono sembrare ridicole.
Non ha paura di essere eccessivo Super Drags, il nuovo cartone animato di Netflix che racconta – come si può intuire dal titolo – le avventure di 3 drag queen impegnate a salvare il mondo dalla progressiva avanzata del grigio. La battaglia che scandisce i 5 episodi è il vero e primo tentativo di emanciparsi dal periodo politicamente corretto che ha impedito l’ironia sulle persone GLBTQ.
Super Drags aggiorna gli stereotipi sostenendo, per esempio, che l’unico evento capace di catalizzare l’attenzione della comunità gay è la visione corale della morte della mamma di Bambi. Super Drags asfalta, con una virile volgarità, le argomentazioni degli omofobi che non sapendo più che fare con le persone colorate propongono – nel cartone animato – l’abolizione della carta igienica, rea di assicurare il corretto svolgimento di un rapporto anale.
Super Drags è – paradossalmente – il prodotto più reale del catalogo Netflix perché ci ricorda che nulla è più tangibile e vivo di una risata generata da una battuta non replicabile in pubblico (come buona parte di quelle del cartone animato).