Che cos’è il Game? È insieme un luogo e un tempo che stiamo già abitando e vivendo; non è solo una rivoluzione tecnologica fatta di nuovi oggetti (dal videogame Space Invaders all’iPhone), ma il risultato di un’insurrezione mentale, inarrestabile. Alessandro Baricco, nel suo nuovo saggio pubblicato per Einaudi, ci guida attraverso questo nuovo mondo con l’entusiasmo di Paperone che cerca l’oro nel Klondike e la sicumera visionaria del guru, senza dimenticare la lingua e la naïveté dello scrittore e l’umanesimo analitico del professore. Ma non della scuola di oggi, quella – dice Baricco – «va cambiata completamente».
È già passato un mese dall’uscita del libro e nella mia bolla – ovvero tra le mie amicizie più o meno virtuali di Facebook – se ne parla molto. Facendo la doverosa premessa che abito una bolla spesso noiosamente snob che arriva dall’ex élite (ormai detronizzata dalle nuove regole del Game) del mondo culturale ormai sfrondata e precarizzata, devo dire che i commenti erano per la maggior parte positivi, anche chi non apprezzava il Baricco romanziere (quello dei mega bestseller Oceano Mare e Novecento) ha riconosciuto che questo libro – per citare uno dei post che ho letto – “entra nel dibattito intellettuale portando un punto di vista interessante”. Insomma, la notizia è che Baricco è di nuovo hype, ma quando lo incontro non ho il coraggio di dirglielo.
Hai avuto la tentazione di portare i contenuti di The Game nella forma romanzo, come hanno fatto due tuoi colleghi americani, Dave Eggers con Il cerchio e Jonathan Franzen con Purity?
Ho questo strano istinto che mi porta a scrivere dei saggi quando sono affascinato dal presente; se, invece, voglio fare dei romanzi mi ispiro al passato. Non so spiegarlo più di tanto, ma è sempre successo. Dopodiché The Game non è solo un saggio, è anche una narrazione. Secondo me è un thriller archeologico-sentimentale: c’è un uomo che cerca di scoprire una civiltà scavando nelle rovine, e gli capita di trovare dei pezzi di se stesso, oltre a gente che aveva perso.
Il consumismo insito nel game fa sì che tutto parli del presente e poco del futuro. Spetta ancora alla letteratura – per esempio attraverso il racconto distopico tanto di moda – questo privilegio di occuparsi del futuro?
La distopia è un genere molto affascinante, ma trovo che in questo momento il presente sia talmente ricco di scrittura da interpretare, che mi diverto di più a scoprire come funziona realmente Facebook piuttosto che a immaginare scenari futuri.
Perché hai scelto proprio di occuparti di questo gioco che è la nuova era informatica?
Perché è la naturale prosecuzione dei Barbari (il suo libro del 2006, nda). L’unica altra cosa che ho coltivato per così tanto tempo era l’idea di fare un libro simile sui farmaci.
Ti sei pacificato con l’immagine che descrivi a inizio libro, i ragazzini a Tokyo tutti con il cellulare fisso in mano? Ormai è la norma…
Quando vedevo quelle ragazzine pensavo a Blade Runner, a una deriva apocalittica. Oggi, a tanti anni di distanza, devo ammettere che loro erano semplicemente molto avanti. Io ho fatto un libro che cercasse di spiegare di cosa è fatto il Game, e perché è fatto così. Il fatto che mi piaccia o meno non è centrale, l’ho lasciato in un breve capitolo alla fine del libro. Anzi, è davvero poco interessante.
C’è qualcosa nella quotidianità di questo nuovo mondo che ancora “ti fa strano”, o ti infastidisce?
Tutta questa furia per l’abbattimento delle élite non mi appassiona. Penso che il corretto utilizzo di un’élite sia uno dei due o tre movimenti sensati con cui potremmo migliorare il mondo. Rifiutare le élite o combatterle con cecità non porta lontano.
Parliamo di élite, allora. Circa la fine di quelle vecchie, come quelle culturali, dici che molti oggi sono diventati dei semplici “mediatori”. Però erano e rimangono loro a produrre contenuti. Vuol dire che se ne può fare a meno?
Il Game in questo momento ha penuria di contenuti. C’è stato uno sviluppo muscolare ipertrofico delle possibilità di fare – quello che chiamo umanità aumentata –, ma lo scheletro, i contenuti appunto, sono rimasti uguali. Il Game offre a individui ancora fragili e da formare strumenti che andrebbero bene invece per un leader.
Questo pimpaggio muscolare che racconti nel libro e che tu chiami realtà aumentata – ovvero la nuova facilità di viaggiare, informarsi, giocare – ha cambiato non solo i nostri corpi ma anche i rapporti economici e sociali tra essi. E qui arriviamo a un’altra questione fondamentale, talmente importante nel tuo saggio che rischio di aver fatto un po’ di confusione: sono d’accordo quando dici che le nuove élite sono i capi di Facebook e Google, ma quando dici che lo sono anche gli influencer ho dei dubbi. Mi sembrano più un nuovo proletariato che ha Instagram al posto della fabbrica.
Ci sono molte differenze. Io parlo di un’élite che si sta formando e che è rappresentata da quelli capaci di post-esperienza, ovvero che sono in grado di produrre senso attraverso le tecniche del Game. Il che non vuol dire che stanno su Instagram, possono fare tutt’altro, ma hanno una mente che si muove in maniera adatta a questo tipo di habitat. Di solito hanno trent’anni, ma alcuni ne hanno anche 12. Se vogliamo un mondo migliore – e se il Game, come penso, è un buon modello – è cruciale l’educazione e la formazione di questa gente, perché se li lasciamo uscire fuori…
Vorrei chiederti un po’ provocatoriamente da dove li dovremmo fare uscire, visto che questa dote della post-esperienza che riassumi molto bene quando parli del multitasking – tipo la capacità che hanno gli adolescenti di oggi, di fare i compiti guardando Netflix e chattando su direct – mette questa potenziale nuova élite già in una posizione di vantaggio rispetto ai dinosauri della generazione precedente.
Magari questi ragazzi cercano di sbucare nel giornalismo e non li lasciate entrare, allora cercano di uscire altrove. Però, quando pascolano integralmente nei territori dell’oltremondo sono scarsamente utili: creano il Game, ma non lo correggono. Sono invece convinto che esista una nuova aristocrazia del Game – gente tra i 10 e i 35 anni –, con potenzialità pazzesche. Non sono aggressivi perché non è nel loro Dna, quindi siamo noi a doverli far uscire.
Però non sono così timidi, visti sui social network – uno dei luoghi che tu definisci “Oltremondo” – sembrano dei narcisi molto più sicuri di sé e dei like che ricevono. Il narcisismo non è forse un limite alla creazione di questo umanesimo digitale?
Il narcisismo è un problema e vinceranno quelli capaci di controllarlo. Io ho una scuola (la Holden a Torino, nda) e quelli bravi sono tutti narcisisti, ma solo quelli che riescono a tradurre in forza questa energia ce la faranno. La stessa cosa accade per i mestieri tipo il mio: se non sei narcisista non lo fai, ma se sei solo narcisista lo fai male.