Fabrizio Giannini è seduto al tavolo di un bar vicino a Corso Sempione, il pianto dei bambini attorno a noi dà comunque meno fastidio del pop latino in sottofondo. Figlio d’arte – il padre Giuseppe è stato manager della CGD ai tempi di Ladislao Sugar -, ha fatto il discografico per una vita, dagli esordi alle Messaggerie Musicali fino a CBS, e poi il ruolo di general manager di Warner e di EMI. Ha scoperto Laura Pausini e Luciano Ligabue e ha lavorato con artisti come Eros Ramazzotti, Giorgia e Giusy Ferreri, prima di mettersi in proprio. Dal 2001 segue la carriera di Tiziano Ferro, cui ha firmato il primo contratto artistico e di cui oggi è manager, assieme a Nina Zilli e Elodie. Allarga un sorriso che non gli sta nella bocca, perché all’ora di pranzo ha fatto il consueto torneo di beach volley e ha dominato la scena. Da un paio di anni ha smesso con il calcetto, che dopo una certa età diventa una forma di attentato nei confronti di articolazioni e nervi. Ma è ancora in grande forma. Ed è pronto a rispondere a tutte le nostre domande sullo stato della musica in Italia oggi.
Con una sua intervista di alcune settimane fa a Rolling Stone Emma Marrone ha aperto un dibattito. Secondo lei “i numeri delle classifiche di streaming parlano chiaro: il pop è in crisi”. Resta da capire se irreversibile.
Condivido le parole di Emma, ma sono convinto che il pop non morirà mai, perché l’Italia è un Paese di musica popolare da sempre. Di certo oggi soffre un po’ la capronaggine del pubblico: l’ossessione per l’inseguimento di mode passeggere, su cui si buttano tutti a capofitto fino all’arrivo di quella successiva. Non si lavora più affinché tra dieci o vent’anni qualcuno ascolti ancora le tue canzoni, che era la prospettiva che ci si dava un tempo. Se ti va ci ritroviamo a questo tavolo tra cinque anni: vorrei vedere quanti artisti che ci sono sulla tua playlist oggi ascolterai ancora.
Perché il pop soffre più di altri generi musicali?
Non soffre solo il pop, soffre la bella musica. E il motivo ultimo, secondo me, è che nessuno fa più scouting: l’unica religione sono lo streaming e l’AirPlay. Così si reitera all’infinito ciò che già si sa che funzionerà. Il digitale ha cambiato le regole rispetto ai tempi in cui io lavoravo in discografia. Allora, permettetemi la retorica, si andava alla scoperta di nuove voci usando il cuore, oggi contano solo con i numeri. Quando ho firmato Sergio Cammariere alla EMI, quasi nessuno lo conosceva fuori da Roma. Ma mi aveva conquistato con la sua musica, così gli offrii un contratto e lui fece una grande carriera. Oggi non sarebbe più possibile, perché se non garantisci certi numeri su Spotify o ancora peggio non hai tot follower su Instagram – siamo arrivati al paradosso per cui la tua musica non è nemmeno più determinante – non avrai mai la tua occasione. L’arte è stata messa da parte, ed è un dramma.
Andiamo per ordine. Mi pare che non ami granché i social, oggi un aspetto fondamentale della comunicazione di ogni artista.
Sono diventati un’ossessione: se per un giorno gli artisti non sanno cosa pubblicare, si fanno prendere dalle paranoie. Capisco le loro potenzialità e la centralità per il business, ma oggi li stiamo subendo. Sono i social che ci sfruttano, non viceversa.
Stesso discorso per la tv?
Se non la usi bene, sì. A me non frega nulla di portare un artista in tv tanto per esserci: se non c’è il prodotto, anzi, può risultare controproducente. Dieci anni fa andavi in tv solo se eri famoso, se avevi venduto un sacco di copie. Ora ci entri da sconosciuto e magari dopo vendi le copie: i talent hanno portato a questo. Hanno innalzato dei ragazzini che suonano immersi in produzioni che artisti internazionali si sognano, mentre tu finisci per guardare le luci e perderti la musica.
Cerchiamo di vedere il lato positivo. Ad esempio i Måneskin – grazie anche a un’ottima comunicazione della loro immagine – fanno un rock che sembrava sparito, riportano in locali pieni di gente le chitarre e la batteria. Basterebbe intendersi: non hanno inventato nulla, ma contribuiscono a riportare all’interno della sfera del mainstream un suono che era stato estromesso da quel perimetro.
La tv amplifica tutto, e offre delle opportunità da sfruttare. Loro se le sono giocate alla grande. Da un lato – come il pop – il rock non è morto, ma cambia di continuo e si adatta ai tempi. Dall’altro va detto che il vero successo della band, al di là dei mesi di iper visibilità del programma, è arrivato ora con Torna a casa, una classica ballad pop. Di certo il loro progetto è stato declinato molto bene all’interno di un mercato come quello italiano, in cui suoni di un determinato tipo sono stati confinati fuori dai passaggi radiofonici.
Qual è il più grande problema degli artisti oggi?
Che spesso si dimenticano di essere tali. L’artista è sfuggente, come Battisti. Oggi, invece, la maggior parte dei cantanti sta tutto il giorno in mutande a frignare sui social o in tv, oppure assaggia il cibo bendato nei talent di cucina. Senza dei contenuti, la popolarità non serve a nulla.
Torniamo da capo: non comanda più la musica.
C’è meno ricerca di progetti artistici: conosco artisti che rifiutano canzoni se non hanno la garanzia di essere compresi nelle quote editoriali, e di poter così guadagnare dai diritti. E poi, personalmente, non amo il fatto che oggi sempre più artisti pretendano di curare ogni aspetto del proprio lavoro, dalla regia dei videoclip alla produzione. Bisogna fidarsi delle persone con cui si collabora, e non sottrarre tempo e dedizione agli aspetti più prettamente musicali.
Cosa ne pensi dei giovani rapper che macinano milioni di views in pochi giorni?
Che i loro numeri sfalsano il mercato. Come quelli dei fan di Amici, che si muovono come delle tifoserie e regalano agli artisti usciti dal programma numeri impressionanti. Numeri che fanno gola alle case discografiche, che a loro volta rinunciano allo scouting vecchia maniera e fanno a gara per accaparrarsi chi garantisce certe views o certi streaming.
Ti è mai capito di guardare le classifiche e non conoscere artisti nella top ten?
Ultimamente sempre, e io sono uno che cerca di aggiornarsi. Penso che sia fondamentale nel lavoro che faccio e se le regole oggi sono queste è giusto adattarsi, come nel calcio quando tutto il mondo ha abbandonato la marcatura a uomo per giocare a zona. Però, quando vedi che ogni settimana cambia il numero uno della chart, capisci che siamo in un mercato stantio, dove non si vende nulla. Eccetto Salmo, che ha fatto numeri straordinari ed è stato primo per due settimane, è un ricambio continuo, che si nutre solo delle fanbase e dei loro ascolti sicuri dopo l’uscita del disco.
Non è giunto il tempo di avviare sul serio il dibattito sulla fine dei dischi? Non intendo l’oggetto fisico – già quasi superato, così come il download ormai -, ma la temporalità del release di 10 o più tracce assieme.
Per prima cosa vorrei si eliminassero i dischi “farlocchi”. Di recente, durante una riunione ho sentito proporre di tenere fuori un pezzo dall’album, per poter fare un repackaging dodici mesi dopo. Non sono contrario alle special edition, ma devi offrire contenuti nuovi. Se non hai idee lascia perdere, se no fai del male alla musica e prendi in giro i fan che sono “costretti” a comprare un prodotto solo apparentemente nuovo. Per il resto, il mercato dei dischi fisici ormai è minuscolo: quando diventerà del tutto residuale, probabilmente non ci sarà nemmeno più la necessità di fare uscire le tracce assieme.
Citavi Salmo, che ha di fatto negato la prima posizione in classifica all’ultimo di Giorgia (prima di essere scalzato da Eros Ramazzotti, ndr). Fare un disco di cover oppure lanciare un tour assieme a un altro grande nome – come hanno fatto Pausini e Antonacci – non sono delle battaglie di retroguardia da parte dei nostri big del pop?
Quando una casa discografica deve fatturare ha tre strade: un best of, un disco di Natale, oppure, appunto, un disco di cover. Per quanto riguarda Laura Pausini, che è una grandissima artista, ritengo che nell’ultimo periodo abbia puntato più sulla comunicazione di sé che sulla musica. In generale in giro vedo davvero poca creatività.
Una cosa buona c’è: i live sono spesso pieni, i soldi si sono spostati su quel fronte.
Una crescita impressionante, nonostante il prezzo dei biglietti sia salito e non poco. Anche in questo caso vedo che il pubblico premia i progetti veri. Voglio farti un nome: Ultimo. Il suo è un pop moderno e ben fatto, che lui sta costruendo con impegno e talento. Ha vinto Sanremo Giovani e ha conservato il successo a 10 mesi di distanza, perché ha continuato a puntare sulla buona musica e non sui singoli estivi. Un lavoro alla vecchia maniera, che poi riempie i palazzetti.
C’è una differenza ontologica tra un Calcutta e una Emma Marrone?
Calcutta fa parte di una nuova generazione di cantautori. Emma è una brava interprete. Detto questo, al netto delle etichette, è sempre pop. Quello degli artisti indie è un pop contemporaneo, che oggi funziona. Ma il mondo di riferimento rimane lo stesso.
Cosa ne pensi dell’ingresso sempre maggiore delle grandi aziende nella musica? Penso a Netflix che realizza con Salmo il videoclip di Sparare alla Luna o alle canzoni che paiono nascere pensate per delle campagne pubblicitarie.
Non sono contrario in linea di principio: viviamo in un mercato sempre meno ricco, dove i soldi sono concentrati in mano a pochi grandi gruppi. È certamente vero che gli sponsor oggi chiedono sempre di più, ma investono anche tanto. Se non ledono la tua libertà creativa e non ti costringono a vendere tuo figlio, ben vengano.
Veniamo ai tuoi artisti. Cosa dobbiamo aspettarci da Tiziano Ferro per il 2019?
Un album, che uscirà a novembre. Avrà la produzione internazionale di Timbaland e sarà uno dei suoi più belli, se non il più bello.
Poi c’è Elodie, che parrebbe andare contro a parecchi dei discorsi che hai fatto oggi. Nel senso, Nero Bali credo che tra cinque anni non sarà sulle nostre playlist…
Nemmeno Rambla, se è per questo. (Ride) Sono contento della provocazione, mi permette di spiegare un po’ di cose. Conosco Elodie da un sacco di anni, la vidi per la prima volta ad un provino di X Factor quando ancora era in Rai e lei aveva 17 anni. Ci siamo ritrovati con il tempo, perché ho sempre considerato la sua voce straordinaria. Il percorso che sta facendo, però, mi trova, diciamo così, tiepido. Un anno fa circa stavamo lavorando a un disco pop molto importante, con pezzi di Levante e Tommaso Paradiso. Purtroppo Elodie non è stata presa a Sanremo, come era nei nostri piani, e sia lei che la casa discografica si sono un po’ fatte prendere l’ansia del rischio di finire fuori gioco. Io avevo una strategia diversa, avrei voluto che continuasse a puntare sulla qualità della sua voce e delle canzoni. Ma mi sono trovato solo, e ho dovuto accettare scelte artistiche che non condivido. Sul palco vanno gli artisti; io lotto per convincerli a fare certe scelte, quelle che io reputo le migliori per loro, ma l’ultima parola è la loro. Spero solo che l’esposizione di questi mesi serva a Elodie ad andare al prossimo Sanremo, e riprendere il percorso che avevamo iniziato.
Nina Zilli ha dato o ricevuto meno di quello che avrebbe dovuto?
Dato non credo, perché è una lavoratrice instancabile, oltre che una grande musicista. Ricevuto, a mio avviso, sì. Si è trovata in mezzo a una sorta di gap generazionale di interpreti femminili, e forse non ha del tutto trovato la sua identità artistica. Va solo messo un po’ meglio a fuoco il suo progetto musicale, credo.
Una cantante donna manca sulla copertina di Rolling Stone da tanto, troppo tempo. Colpa nostra o manca una scena all’altezza?
No, mancano le donne, purtroppo. Guarda le classifiche, lo dicono chiaramente. C’è stato un periodo in cui dominavano: l’era di Giorgia, Carmen, Laura Pausini e Elisa. Poi Emma e Alessandra Amoroso, che hanno fatto e continuano a fare bene. Ma da lì in poi più nulla o quasi; negli ultimi anni poteva emergere Levante, ma X Factor temo le abbia fatto male.
Un’ultima domanda sulla politica, visto che la “tua” Nina Zilli durante un concerto quest’estate se l’era presa con Salvini ed è venuto fuori un bel casino. Noi chiediamo sempre agli artisti di prendere posizione, lo abbiamo fatto con una copertina parecchio esplicita. Secondo te fanno bene a farlo?
Oggi tutti dicono tutto senza filtri, guarda l’ultimo diverbio tra Salvini e Gattuso. Vale tutto, mi pare evidente. Io penso che esprimere la propria opinione sia un diritto civile, quindi non ho nulla in contrario. Anzi apprezzo il coraggio di chi lo fa, con il rischio di alienarsi fette di pubblico. Solo non mi piace la caciara, e a suo tempo a Nina lo dissi. Dire “Vaffanculo Salvini” e basta non serve a nulla, passi dalla parte del torto. Argomenta, porta delle idee. Anche perché lui comunica molto bene, e se no ti mangia.