Alcuni attori vivono di spirito proprio, hanno qualità innate: gli punti la camera addosso, senti la loro voce e ne rimani ammaliato, rapito, prigioniero. Non so quali siano gli ingredienti, ma Robert ce li ha tutti e li ha condivisi con noi per tanti anni”. Queste le parole del regista David Lowery alla premiere ufficiale di Old Man & the Gun che, a detta di tutti, è stato l’ultimo film di Robert Redford. Un mito che non ha bisogno di presentazioni.
Basti pensare alla sua carriera come attore (da A piedi nudi nel parco in poi), senza menzionare Gente comune, da lui diretto, Oscar per miglior film e regia, oppure il suo attivismo come ambientalista e fondatore di Sundance, il primo festival indie quando ancora i film indipendenti erano piccole produzioni di sconosciuti con budget sotto i 100mila dollari (ora non più). Siamo andati a Toronto per incontrarlo, per vederlo da vicino, per parlargli, per assicurarci che i suoi occhi azzurri siano sempre gli stessi. Per controllare quel sorriso che, in una sala buia perforata solo da un fascio di luce, ci ha graziato per 60 anni. E sì, posso assicurarvi che Robert Redford è sempre lui. Sempre sul pezzo. Sempre bello, serio, gentile, educato. Occhi azzurri, capelli sulla fronte e sorriso invitante.
Il suo ultimo ruolo è Forrest Tucker, rapinatore con una carriera che comincia a 15 anni con un furto di bicicletta e termina a 80 con la sua ultima rapina in banca, che lo porta a finire gli ultimi anni in prigione e morire di cancro nel 2004. Il film è basato su un articolo pubblicato nel 2003 sul New Yorker, dove Tucker racconta molti aspetti della propria vita, rapine, e tre matrimoni compresi (nessuna delle mogli era a conoscenza dei suoi crimini).
La storia è ambientata nel 1981, quando Tucker e i suoi due soci organizzano una serie di rapine nel Southwest degli Stati Uniti. I due soci sono Teddy Green, interpretato da Danny Glover, che Tucker ha conosciuto ad Alcatraz e John Waller, un magnifico Tom Waits, che con Tucker evade da San Quintino. Il poliziotto che segue le loro tracce è John Hunt, interpretato da Casey Affleck. In tutto questo casino Tucker riesce a trovare il tempo per avere una relazione con Jewel, vedova benestante amante di cavalli (Sissy Spacek), che lo amerà per tutta la vita, nonostante gli arresti.
Com’è nata la passione per questa storia?
Forrest Tucker era un personaggio con un carisma incredibile. Era gentile e sorridente, è sempre piaciuto a tutti. Una volta qualcuno gli chiese se rapinava banche per guadagnarsi da vivere, e lui rispose che rapinava banche per vivere. Per me questo è un bel concetto, aveva una vera passione per il suo “lavoro” anche se purtroppo era illegale! È la storia di un vero fuorilegge, e per me solo il fatto che l’abbia fatta franca per decenni è molto interessante. Sin da bambino sono sempre stato affascinato dalle persone trasgressive, anch’io nel mio piccolo sono uno a cui piace infrangere le regole.
Un esempio?
Sono cresciuto a Los Angeles, a Santa Monica, dove ci sono un sacco di leggi per qualsiasi cosa, è sempre vietato fare questo o quello. Non ho mai voluto essere contro la legge, ma non sono mai stato quello che la rispetta del tutto. Mi piace stare sul confine.
E come ha scelto David Lowery?
L’ho conosciuto al Sundance Institute, dove abbiamo diversi programmi per registi e sceneggiatori emergenti. Gli proposi questa storia cinque anni fa. Anche a lui piace infrangere le leggi del cinema, ha un modo quasi perverso di girare perché ti fa credere che sta seguendo una direzione e poi improvvisamente ne segue un’altra. È molto bravo a creare lo spessore di un personaggio.
E Sissy Spacek?
È assurdo, ma non avevamo mai lavorato insieme! La ammiro molto come attrice e come donna, anche lei ha uno spirito fuorilegge, ama questo mestiere come me, e lo fa con grande senso dell’umorismo. L’idea del film è questa, qualsiasi cosa facciano i protagonisti, anche se colpevoli, lo fanno divertendosi.
Ha diretto e interpretato molti ruoli politici. Quanto è importante avere un impatto sociale?
In questo momento particolare è fondamentale per la nostra sopravvivenza, abbiamo toccato il fondo. Voglio fare film che parlino di politica, ma non film politici, non voglio schierarmi per nessun partito. Ho scelto di fare questo film perché era una storia che poteva andare oltre la situazione triste di questo Paese, dove repubblicani e democratici non riescono a comunicare. È deprimente, soprattutto per noi cittadini che abbiamo tutto da perdere.
C’è speranza?
Sì, soprattutto con la nuova generazione. Vorrei che i miei film ispirassero i giovani a riflettere sul futuro: la nostra democrazia è in pericolo, il governo è diviso da ideologie contrastanti, dobbiamo focalizzare il nostro tempo concentrandoci su come unirci invece che dividerci.
Ritornando al film. Si affronta spesso la questione dell’invecchiamento.
Non penso mai al fatto che sto invecchiando, non è un soggetto che mi interessa, non ci voglio pensare. Tucker non ci pensava, è riuscito a evadere dal carcere di San Quintino quando aveva 70 anni! Entrambi abbiamo questo in comune: facciamo solo quello che amiamo fare.
Dopo 70 anni di carriera è più facile recitare?
Non è mai facile, ma con l’esperienza vuoi dare l’impressione che sia naturale. Recitare per me significa vivere nel momento. Quando trovi quel momento in cui sei rilassato abbastanza, hai una certa intesa con la tua co-star e conosci le tue battute, allora puoi improvvisare, sempre rimanendo fedele alla realtà che vivi in quel momento.
Qual è il futuro di Sundance?
Sarà nelle mani e nel cuore dei miei figli. Come genitore mi sono impegnato molto nel cercare di lasciarli liberi di fare le proprie scelte. Non ho mai voluto condizionare le loro passioni, volevo che scegliessero il proprio destino. Ma ora sono pronti a prendere il controllo, a ereditare tutto quello che ho creato, sperando che un giorno lo passino ai miei nipoti.
Cosa rappresenta Sundance, per lei?
Sono sempre stato un attivista, sia come attore, regista o direttore del festival. Per me è una piattaforma per raccontare nuove storie, per aiutare e supportare artisti con la passione per il cinema, anche per chi è stato rifiutato dal mainstream. La parte più importante di Sundance non è il festival, ma tutto quello che fa parte del Sundance Lab: i seminari, le opportunità di tirocinio, i vari programmi per insegnare a una nuova generazione cosa significa creare storie interessanti e significative per il nostro futuro.
Il suo ruolo preferito?
Non posso sceglierne uno in particolare, ma se dovessi prendo Butch Cassidy, un altro fuorilegge. Mi è sempre piaciuto. È stato il film in cui ho fatto amicizia con Paul Newman, amicizia durata tutta una vita. Nessuno mi voleva per quel ruolo, ma Paul, che a quel tempo era un attore affermato, ha lottato per me. Era un uomo straordinario, con un’integrità professionale che non ho mai più visto a Hollywood.
Come ha deciso di diventare attore?
Sono diventato attore grazie alla mia passione per l’arte. Quando frequentavo le elementari ero ossessionato dall’arte, disegnavo in continuazione ispirandomi alle fotografie che vedevo quando mio padre leggeva il quotidiano a colazione. A scuola facevo fatica a concentrarmi, potevo passare ore con una matita e un pezzo di carta osservando quello che succedeva fuori dalla finestra. In quegli anni, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la passione per l’arte non veniva considerata seriamente. Ma per me è sempre stato un modo per comunicare, ecco perché ho scelto il cinema, per poter comunicare con più gente possibile.
Ha annunciato che questo è il suo ultimo film da attore…
Never say never, ma dovrebbe, anche se con questo non voglio dire che vado in pensione. Quando decidi di smettere di fare qualcosa, non è mai la fine, la strada è ancora lunga. Ma magari mi capita un altro ruolo come quello di Tucker, e decido di risorgere.
Quindi potrebbe ritornare a recitare?
Why not? Posso solo cambiare idea. Sono in questo business da quando avevo 21 anni e ora ne ho 82 anni. Non ho più la pazienza dell’attore. Ma lungi da me dire che vado in pensione, non ci penso proprio! Continuerò a produrre i progetti che mi stanno a cuore. E poi vedremo.