Changes è uscita un 7 gennaio come oggi, 47 anni fa. È la traccia che apre Hunky Dory, uscito qualche settimana prima, nel dicembre 1971, ma per qualche motivo inspiegabile (colpo di genio? Nemmeno Bowie se l’è mai spiegato) fu scelta come primo singolo dell’album. Anche Ken Scott, il produttore dell’album insieme a Bowie, tentò di distrarre Bowie dall’idea proponendo il pianoforte saltellante di Oh! You Pretty Things come primo 45 giri da far uscire come singolo. Si temeva facesse un buco nell’acqua. E invece da quel 7 gennaio Changes è diventata la parola che più di tutte e meglio di altre riassume Bowie.
A pensarci bene, Changes è David Bowie. È la natura mutevole di un artista camaleontico, è il manifesto di un visionario freak che nella sua carriera è arrivato a sfoggiare una quantità allucinante di livree e personaggi come nessun altro prima e dopo-senza contare che da lì a poco sarebbe nato Ziggy Stardust. E poi, in quel suo arrangiamento ora blues, ora glam, ora piano ballad jazz (è Bowie stesso a suonare il sassofono che sentite), Changes è anche l’impronta inconfondibile lasciata da un organismo troppo complesso per essere incasellato in un unico, misero filone musicale. Un uomo che in mezzo secolo di discografia ha passato al setaccio il linguaggio, lo stile più efficace, conosciuto o meno al grande pubblico, che potesse descrivere al meglio il presente e magari anticipare il futuro: che fosse il soul o la psichedelia, l’art rock o il glam, l’elettronica o la drum ‘n bass e quella sbandata colossale per Goldie negli anni Novanta.
Banalmente poi, Changesè uno dei brani più famosi della sua discografia, uno dei primi che ti vengono in mente quando pensi a lui, uno dei quattro brani di Bowie inclusi nelle 500 canzoni che hanno plasmato il rock and roll secondo la Rock and Roll Hall Of Fame. Questo nonostante Bowie nel pezzo canti chiaramente “Look out, you rock ‘n’ rollers” (“All’occhio, rockettari”) prendendo le dovute distanze da tutto ciò che allora era rock. E le contraddizioni non finiscono qui.
È vero, Changes nel processo di scalata al successo di Bowie è stata una manna, una specie di instant classic che è finito poi per dare il nome a ben tre gigantesche raccolte: Changesonebowie del ’76, Changestwobowie dell’81 e Changesbowie del ’90. Fin da subito, i fan hanno trasformato Changes in un inno, rigorosamente presente nei live e urlato a gran voce in caso della sua omissione dalla scaletta. Bowie però che ne pensava? Sarebbe iperbolico dire che la odiasse come Kurt Cobain odiava Smells Like Teen Spirit, però le sue parole nel descriverla sono abbastanza significative: “Si è trasformata in questo mostro che nessuno smetterebbe mai di chiedere ai concerti” si legge da alcune note sul libretto di Sound + Vision una compliation in un box set uscita nell’89. “Dye-vid, Dye-vid [imitando l’accento inglese]! Fai Changes! Non avevo la minima idea che sarebbe diventata così popolare.”
Eppure, quel mostro è stato anche il pezzo conclusivo della sua piccola comparsata all’Hammerstein Ballroom di New York, il 9 novembre 2006. Il suo mini live, inserito in una serata di raccolta fondi per bambini bisognosi, era composto da tre pezzi. I primi due, Wild Is The Wind e Fantastic Voyage, interpretati sul palco insieme ad Alicia Keys, Damian Marley e Wanda Sykes, mentre l’ultimo Changes in duetto solo con la Keys. Sulle prime nessuno ci ha scritto molto. Ma col passare degli anni e infine con la sua morte improvvisa nel 2016, l’evidenza dei fatti si è fatta chiarissima: quella è stata l’ultima esibizione pubblica del Duca Bianco e Changes, l’ultima canzone.