Ricordo la forza dei primi live de Le luci della centrale elettrica in freddi circoli Arci desertici. Vasco Brondi con basette impresentabili e una chitarra acustica che sbraitava frasi chilometriche tutto chiuso dentro un microfono. Era il 2008 ed era appena uscito Canzoni da spiaggia deturpata, un disco che cambiò la storia della musica alternativa italiana. Quel disco, con quel Brondi così scordato, stonato, stuprato, fu un terremoto. Da un lato liberò il rock alternativo da quel suo attaccamento ermetico ed intellettuale alla poesia, con quella sua scrittura in prosa capace di districarsi velocemente tra registri bassi e alti, dall’altro tracciò definitivamente una linea per cui non era più necessario essere tecnicamente bravi, grazie a quella sua attitudine scordata, dalla chitarra alla voce. Questi due concetti furono le radici dell’indie di questi cazzo di anni zero, generando terreno fertile per una generazione che aveva più cose da dire, che attenzione a come suonarle.
Seduti al Teatro Nazionale di Milano per l’ultima data de Le Luci, dieci anni dopo. Dall’Arci al teatro, dalla gigantesca scritta Coop allo sponsor del teatro CheBanca!, il ritiro dalle scene un decennio dopo quel formidabile esordio. Eccola qui, la parabola dell’indie. Siamo ai titoli di coda di un periodo storico, di un momento della musica italiana così proficuo e ingenuo che, per qualche assurda ragione, funzionava non tanto a livello numerico, quanto nella capacità di creare un primissimo dialogo collettivo che, negli anni a venire, generò quello che, ora, è diventato il nuovo pop italiano. Il problema dell’indie, e quello della carriera di Brondi, fu quell’incapacità di evolversi in qualcosa di altrettanto nuovo e affascinante, a livello culturale e musicale, andandosi ad esaurire nell’itpop o autofagocitandosi nei vari tentativi di reinventarsi.
E questo live ne è la dimostrazione. Il canto del cigno di Brondi è un momento di pathos per i suoi fan, ma, ad un occhio più distaccato, è un concerto pieno di incongruenze ed evidenti problematiche. C’è una disparità nell’esecuzione delle canzoni. Quando è circondato dai suoi musicisti, così preparati, impegnati, ed impegnativi, Vasco ne esce indebolito, offuscato dai suoi limiti tecnici che, in confronto alla sua band, vengono evidenziati. Tutt’altra cosa quando torna alle origini, chitarra e voce e tantissime parole. Lì ritroviamo quell’indie degli esordi, quello sfogo primordiale che trovava la sua peculiarità nell’ingenua foga e follia dei suoi interpreti, capace di trascinarci direttamente nella pancia dell’artista. L’indie, difatti, non ha mai brillato per arrangiamenti prelibati e attenzione sonora. Questo live è un saluto al suo pubblico, doveroso e onesto, e lo si percepisce ancor più nei vari monologhi che Brondi si ritaglia nell’arco delle due ore dello spettacolo. Ha voglia di parlare, di dire, velocemente, tutte quelle parole che nei suoi testi non è riuscito ad incastrare. In apertura, in acustico, Generic Animal, quello che potrebbe davvero essere il futuro per un nuovo modo di approcciarsi al pop con quell’istinto indie che si è andato a perdere a favore della spasmodica ricerca di sfondare le classifiche.
Le luci della centrale elettrica è stato un progetto importante che ha dato la spinta a tanti giovanissimi scapigliati di prendere la chitarra e affrontare la propria intimità, liberandoli da quell’ossessiva necessità della musica italiana di essere alta e distaccata e, in parole povere, migliore di te. Quel Brondi basettato e stonato, per noi, ha significato molto. E apprezziamo molto la sua onestà di abbandonare questo percorso, di fare un passo indietro quando, chiaramente, non restava molto altro da dire. Una scelta certamente difficile, ma quanto mai saggia.
Questo il motivo per cui ci mancherà l’indie, per una sua capacità, artistica, di parlare dalla pancia, piuttosto che attraverso una costruzione a tavolino, tipica impalcatura di questo nuovo pop italiano. Le luci del teatro si accendono ed è ora di dirsi addio. Ci mancherai Vasco, auguri per il tuo nuovo viaggio.