«No, non mi risulta che il look di Salvini stia rilanciando il nostro settore». Da Prato Davide Mariotti, responsabile di Geronimo, storico negozio di abbigliamento ed equipaggiamento militare, sgombera subito l’accampamento da dubbi: dopo l’ambito food, il ministro degli Interni non si è ancora trasformato in fashion blogger.
La scelta di indossare quasi ogni giorno un capo appartenente a un diverso corpo di polizia da parte del leader leghista – non a caso soprannominato Capitano – ha scatenato ogni genere di polemica. Se lo il titolare del Viminale – a cui nelle ultime ore si è aggiunto il collega Bonafede, un filo meno credibile nella parte – lo possa fare o meno, non è ancora del tutto chiaro. Un sindacato dei pompieri pensa che non sia suo diritto, e lo ha denunciato. A prescindere, Saviano e altri pensano che sia inopportuno. Salvini, ovviamente, ha risposto a bacioni.
Mariotti in merito si dice «confuso», ma assicura che non c’è stata alcuna impennata nelle ordinazioni dopo le varie uscite pubbliche del ministro con le mostrine. «Anche perché le persone comuni non possono comprare quei vestiti: è materiale contingentato e riservato alle forze dell’ordine», aggiunge. Il suo negozio rifornisce sia i professionisti del settore – con ordini ricevuti da compagnie e unità, oppure dai singoli, che hanno diritto a “personalizzare” entro certi limiti il proprio abbigliamento -, che i cittadini “normali”, sottoposti però a «normative molto più stringenti che altrove: molti vestiti in strada non si possono mettere». Bisogna infatti portare merce senza fregi oppure appartenente a forze armate straniere, l’alternativa è affidarsi alle riproposizioni dei vari brand.
«Ecco. Se la tendenza, chiamiamola così, autoritaria o militarista del governo non sposta le masse, gli stilisti sono molto più influenti», spiega Mariotti. «Bastano un paio di sfilate (“richiami” di questo tipo sono continui. Oggi Andrea Rosso, figlio di Renzo, ha lanciato il brand MYAR, tutto incentrato sulle vecchie divise, ndr) in cui compaiano capi che richiamano allo stile di forze armate o di polizia, che ci accorgiamo che qualcosa è cambiato». La moda lo fa in maniera «ritmica». «Dai pantaloni con tasconi laterali, che tornano sempre, all’evergreen field jacket, fino al giaccone M51, il “parka” degli americani in Corea, che, reinterpretato in mille modi, funziona sempre. In generale, l’approccio vintage vince».
Anche il mondo del cinema e lo spettacolo incidono: se Vasco va in tv o sul palco con il suo cappellino “Army”, è facile che qualcuno il giorno dopo cercherà di procurarselo. «La nostra clientela è molto sensibile a queste cose. Oggi, ad esempio, i rapper sono degli ottimi testimonial, ma il loro pubblico, quello dei teenager, è contesissimo da tutte le aziende che fanno streetwear, che li bombardano di stimoli e riferimenti sempre diversi». A frenare invece gli affari di Geronimo e delle altre imprese del settore sono i cambiamenti climatici, visto che un abbigliamento tecnico di questo tipo è spesso acquistato perché particolarmente caldo e resistente. «Quando arrivavano le ondate di freddo, gli acquisti aumentavano sempre. Ora non accade più, perché gli inverni sono spariti».
Il periodo d’oro dello “stile militare”, spiega Davide Mariotti, la cui azienda opera in Toscana dal 1984, è stato alla fine degli anni ’90. «Ma fare paragoni con i giorni nostri ha poco senso. Allora vendevamo viso a viso ai nostri clienti, e avevamo la fortuna di operare in una zona in cui giravano tanti soldi. Oggi questo tipo di vendita è quasi marginale: si fa tutto online, con la concorrenza di Amazon e di mille piccoli operatori, che grazie a un sito e un magazzino si sono reinventati commercianti, magari per ovviare alla perdita del posto di lavoro. Il settore è cambiato, i cosiddetti spacci militari non esistono più: l’usato è sparito quasi del tutto, perché su Internet non va».
Paradossalmente il momento di maggior splendore è coinciso con quello in cui in Italia le pulsioni antimilitariste erano più forti, dalle bandiere della pace appese ai balconi al movimento No Global. «L’uso di “controindicazione” dell’abbigliamento militare è sempre stato forte. Un “look di risulta”, mutuato da quello degli hippy, che tornavano dalla guerra in Vietnam e si riproponevano di non combattere mai più. Così davano un’accezione di protesta, e non di adesione a certi valori, al loro stile». Se lo stile-Beatles è qualcosa che abbiamo tutti in mente, chiaramente il discorso non vale per tutti i capi. «Le divise delle SS, dei SAS inglesi o della legione straniera sono difficilmente inquadrabili in quello spirito». Almeno in Italia, dove stima e amore per l’arma, e in generale lo Stato, non sono qualcosa di condiviso, universale. «Negli Stati Uniti, invece, l’orgoglio per le forze armate è molto diffuso, e il lifestyle ne risente a prescindere dalle contingenze politiche», conclude Mariotti. «Da noi questo senso di appartenenza alla bandiera non esiste, quello alla case di moda molto di più».