Indossa jeans scuri e un cappottone nero, informe. Sorride cortese, avvolta da un’aura di fragilità è, al tempo stesso, risoluta quando parla in modo dritto e sereno di cose sdrucciolevoli. Va da se, giustissima – avrebbe detto il paninaro –, non ha nulla da dimostrare. Quando ci accomodiamo in una stanzetta del Fabrique, si fa largo nella mia memoria una rapida parata di versioni del suo viso: tredicenne, stesa a fianco al divino papà Serge, nel video per il controverso adattamento disco di Chopin – Lemon Incest – fino alla ninfomane del film di Von Trier. «Oggi vivo a New York, le mie figlie vanno a scuola lì. Lasciare Parigi è stata una scelta dura ma giusta per la famiglia. Per respirare di nuovo, avevamo bisogno di una nuova vita in una nuova città».
Nel 2013, Kate Berry, sorella e migliore amica – figlia di mamma Jane Birkin e del grande compositore di colonne sonore John Barry – decide di mettere fine a un’esistenza difficile in un appartamento nel sedicesimo arrondissement, scavando un buco nella vita di Charlotte Gainsbourg: «Volevo essere un’estranea. Che tutto fosse nuovo, poco familiare. Vivere in una città che non conserva alcun ricordo. Certo, quando mi sono trasferita Barack Obama era presidente, il cambiamento è stato radicale. Ma quella retorica si sta insinuando ovunque, pensa a Le Pen in Francia o anche quanto accade qui da voi. Sono tempi spaventosi».
Dopo quattro anni di lavoro, a fine 2017 esce l’album Rest realizzato con SebastiAn, DJ e produttore del giro Ed Bangers: nel curriculum, collaborazioni e remix per Daft Punk, Justice, Beastie Boys e Bloc Party, tra gli altri. «Rest nasce da questo trasferimento. Le prime bozze lo precedono di un anno o due, ma non giungevano mai a una forma soddisfacente: negli Stati Uniti, forse perché mi sentivo isolata, le ho sviluppate con più impegno. SebastiAn mi ha raggiunto, a più riprese, dalla Francia».
Una volta negli Stati Uniti, Charlotte mette a punto una formula che meno “americana” non si può: un’adulta che metabolizza un lutto cantando in francese. Detta così sembra un disco di un’altra epoca: meno forzosamente euforica. Complessa. Prima che l’inglese piallasse via gli altri idiomi dalle classifiche (eccezion fatta, naturalmente, per il tormentone sudamericano d’estate). «A dire il vero ho sempre fatto fatica con i testi: c’era sempre qualcosa che non andava. Stavolta le strofe sono arrivate, perlopiù, in francese e i ritornelli in inglese. La cosa buffa è che in francese non avevo filtri; in inglese ero più pop, più – diciamo così – artificiale. Ma serviva anche quello: scrivere è stato, soprattutto, parte di un cambiamento individuale».
Rest è una creatura strana, non solo per la lingua, ma anche per la sovrapposizione tra il raccoglimento, l’intimità disarmante dei temi e le tracce musicali spesso imparentate – come il pedigree del produttore lascia presagire – con la disco: «Quando è morta Kate, SebastiAn ha intuito che avevo bisogno di lavorare al disco quanto prima. La prima intuizione era evocare le atmosfere degli horror che mi piacevano da bambina: suoni enfatici, rumorosi e aggressivi affiancati alla mia voce, che non è affatto forte – ride. Poi ci siamo resi conto che, proprio per la natura introspettiva del lavoro, la musica doveva bilanciare: come una barriera per non restare completamente vulnerabile. L’ultima canzone del disco Les Oxalis, ad esempio, tratta di una visita sulla tomba di mia sorella. SebastiAn è stato molto premuroso: Sei sicura che non ti pentirai di averne cantato su un beat disco? Capii che era esattamente quello che desideravo».
A dicembre 2018 esce Take2, breve raccolta di canzoni che segue Rest, anche nello stile, come un fratello minore: «L’EP contiene brani che stavano bene insieme, provenienti dal gruppo di composizioni che hanno dato vita a Rest: non riuscivo a collocarle tematicamente nell’album, ma le amo molto. Runaway nasce per caso: dovevo partecipare a un programma televisivo in cui si richiedeva di presentare una cover e ho scelto la canzone di Kanye West. L’ho portata in tour e mi è rimasta addosso. Sai, è strano: suono dal vivo anche Hey Joe di Hendrix e Just Like a Woman di Dylan che trovo molto maschili».
Charlotte Gainsbourg è una trottola: ha iniziato a lavorare nella musica e nel cinema da adolescente senza fermarsi, praticamente, mai. «Oggi mi sento a metà strada tra i due mondi. Ho da poco chiuso un film e voglio concentrarmi sulla musica. Nell’industria cinematografica pochi seguono la mia carriera musicale ed è un po’ meno vero l’opposto, ma bilanciare le due attività mi da un senso di quiete. Per lunghi anni ho creduto che non sarei mai più tornata alla musica: era troppo legata a mio padre. La mia guida, il mio mentore. Avevo persino smesso di ascoltarla prima di incontrare gli Air. In fatto di gusti sono molto lenta e arrivo sempre in ritardo, ascolto soprattutto classica».
Al cinema ha lavorato con tanti italiani, Asia Argento, Franco Zeffirelli, Emanuele Crialese… «Anche con i fratelli Taviani – mi precede – quando avevo quindici anni. Ricordo tutti i viaggi a Roma per incontrarli. Momenti che mi saranno sempre cari. Mi piace molto l’Italia, non saprei dirti perché. Al liceo linguistico ho scelto l’italiano. Credo che i miei genitori mi abbiano trasmesso la loro passione per questo paese, lo adoravano entrambi. Più in generale, con i registi stranieri faccio lavori molto interessanti: il film con Crialese, ad esempio è stato molto importante e, naturalmente, ho imparato molto da Lars Von Trier. Penso soprattutto ad autori europei. So che gli Stati Uniti sono molto appetibili e pieni di opportunità, ma per me è fondamentale mantenere un legame con alcuni sguardi coltivati in Europa dal dopoguerra a oggi».
Bussano alla porta: è un ragazzo con la barba. Si dicono qualcosa in francese: è tempo di andare a incontrare i fan italiani, pronti a ricambiare l’affetto. Nel tragitto verso la sala principale sghignazziamo parlando di amenità cinematografiche. Lei resta sorridente e cortesissima.