A distanza di due anni dall’apprezzatissimo Graziosa utopia torna uno dei cantautori italiani – anche se odia essere definito tale – di maggiore talento, in termini di vocalità, composizione, scrittura. Abbiamo fatto una chiacchierata con Stefano Rampoldi, in arte Edda, parlando di politica, l’appena concluso Sanremo, musica indie e trap, ma soprattutto delle nove tracce di Fru Fru che considera «nove singoli», un disco maturo e carico di temi che «non possono essere cantati in chiesa» a sua detta: incesti, sesso e il desiderio di un’Italia tutta gay.
Intanto volevo chiederti se ti aspettavi il successo del precedente disco, Graziosa utopia, che mi pare abbia ricevuto elogi unanimi.
Tutte le volte che esce un disco ho un po’ di paura, però mi aspettavo che fosse più apprezzato di quell’altro [Stavolta come mi ammazzerai, ndr] anche perché lì ho fatto qualche sbaglio, erano troppe canzoni.
E invece le tracce di Fru Fru sono nate dopo Graziosa utopia oppure risalgono allo stesso periodo?
No, le ho scritte tutte dopo Graziosa utopia, ci ho lavorato un anno e mezzo circa. Devo dire che questo nuovo disco mi piace ancora di più, è sullo stesso genere pop.
Rispetto a Graziosa utopia mi sembra più scarno e asciutto negli arrangiamenti, come se fosse il figlio più magro, non so perché ho usato questa metafora…
Boh, io ogni volta che vedo questi figli penso che siano tutti orribili. Per quanto riguarda le sonorità del disco, come punto di riferimento ho avuto l’ultimo degli Strokes Come down machine, che secondo me è un capolavoro a livello di composizione prima ancora che di arrangiamenti, che sono comunque pazzeschi.
Ho letto che tu in studio non fai niente, porti le canzoni e poi le arrangiano gli altri, ho capito bene?
Sì non sono capace, neanche entro in studio, darei solo fastidio. Il disco lo ha arrangiato Luca Bossi in un anno. Io gli mandavo i miei provini, gli ho chiesto di fare un disco pop, poi la ricerca è tutta sua e il risultato mi piace molto, ci sono elementi di Raffaella Carrà che chissà che legame ha con gli Strokes. Spero che piaccia al pubblico come piace a me.
In ambito indie/rock/pop o quel che è, i tuoi testi sono i più provocatori ed espliciti in termini di sesso e sessualità. Una funzione che è stata fagocitata interamente dalla trap ultimamente.
Infatti quello che mi piace di meno della musica indie di oggi sono proprio i testi. Credo che quelli trap siano mediamente superiori (quando non fanno ridere). Io non voglio essere blasfemo a tutti i costi, mi viene così di fare musica, mostro un po’ le mutande sporche. Ho visto che la canzone che ha vinto Sanremo è stata cantata in una chiesa, con le mie canzoni sarebbe difficile, ti immagini il prete che dice «sputami in culo»…?
Quindi hai seguito Sanremo?
Volevo seguirlo, soprattutto per Motta e per gli Zen Circus, ma poi non ci sono riuscito, ogni volta che accendevo la tv stavano parlando e mi innervosivo. La canzone che ha vinto mi è piaciuta, ma la mia preferita era quella di Achille Lauro, avrei voluto che vincesse lui.
Ho rivisto la tua intervista in tv nel 2009, a L’era glaciale di Daria Bignardi. A quel tempo eri appena ritornato dopo 13 anni di silenzio, parlavi della tua tossicodipendenza e facevi l’operaio…
…Ora faccio l’ambulante! (ride) non avrei mai pensato che avrei mollato il lavoro per tornare di nuovo a fare musica. Anche perché i miei ultimi due dischi non sarebbero usciti se avessi continuato a lavorare. In molti mi dicono di preferire Sempre biot, ma io dal vivo faccio pochissime canzoni di quel disco, mi diverto di più con le nuove.