Mi sa che è dai tempi della bestemmia in 1.9.9.6 che apre Hai paura del buio che un disco rock-pop italiano avesse un linguaggio degno della fu “musica del diavolo”.
Sicuramente negli ultimi vent’anni lo scettro della blasfemia o semplicemente del politicamente scorretto è lentamente scivolato dalle mani di chi suona una chitarra e ha una band, per finire nel mondo dell’hip-hop, del rap e di recente della trap, i testi del cosiddetto itpop sembrano delle preghiere o nella migliore delle ipotesi pagine di diario di qualche adolescente al primo amore, per questo è praticamente una notizia che quattro tracce su nove di un disco rock-pop abbiano il rettangolino “explicit” su Spotify. Fru fru esce in un’Italia su cui soffiano venti fortissimi di bigottismo e razzismo, divisa in giurie popolari alle prese con la minaccia delle sette sataniche guidate da Virginia Raffaele, per cui è una specie di miracolo sentire un ritornello “vorrei l’Italia fosse tutta gay”.
Dopo l’ottimo risultato ottenuto nel precedente Graziosa utopia, Edda torna con un disco che porta avanti la conversione verso la musica leggera e d’autore, continuano – seppure con dosi meno massicce rispetto al disco precedente – i retaggi di Mina nella linee vocali (soprattutto nella omonima Edda), o di Raffaella Carrà (Abat-jour) come ci ha detto lo stesso Edda, che però ha tenuto come bussola Comedown machine degli Strokes e così tra sputi nel culo e figli nati morti (E se, Ovidio e Orazio), ci sono tantissime melodie ben costruite nonostante gli arrangiamenti leggermente meno sofisticati e che contribuirono alla fortuna di Graziosa utopia.
In ogni caso la seconda vita di Edda si conferma ancora una volta come un’esistenza preziosa per la musica italiana.