La recensione che state per leggere è stata pubblicata su Rolling Stone ad aprile 1999.
Quando si tratta di hype, i fenomeni dell’hip-hop sono come le automobili: si svalutano non appena escono dal concessionario. Per ogni Nas che ha confermato le aspettative che lo circondavano, c’è un Canibus che ne è rimasto travolto. Gran parte dell’hype che circonda Eminem, però, è giustificato. Non solo è l’unico nuovo protégé di Dr. Dre da molti anni, ha firmato anche gli unici suoni nuovi prodotti da Dr. Dre in molti anni. È anche un rapper bianco in una scena che in due decenni è sempre stata dominata dai neri. Nonostante sia un ragazzino di 24 anni del ghetto di Detroit – una città con una lunga storia di geniali imbroglioni, dai Funkadelic a Madonna – con The Slim Shady LP Eminem ha portato qualcosa di nuovo nella scena. Per restare sul semplice, sappiate che vi farà spaccare in due dalle risate – come quando proclama “I try to keep it positive/And play it cool/Shoot up the playground/And tell the kids to stay in school”. Eminem è il più assurdo clown hip hop dai tempi di Biz Markie.
Se volessimo trovare un antenato bianco di Eminem, sarebbe Rodney Dangerfield con la sua hit (conosciuta solo dai fan più hardcore) Rappin’ Rodney, dove spara rime di livello come: “Steak and sex, my favorite pair / I have them both the same way: very rare”. Con brani come Brain Damage e I’m Shady, dei veri inni per tutti gli sfigati d’America, Eminem è sulla buona strada. Usa il tema razziale solo per strapparvi una risata, cazzeggia attorno stereotipo del bianco nerd, il “class-clown freshman / dressed like Led Nessman”. Quando rappa nel suo registro più alto, ricorda i migliori comici dell’hip hop, come Ad-Rock dei Beastie Boys, Flavor Flav dei Public Enemy e B-Real di Cypress Hill, e il suo accento del Midwest lo aiuta nella sua parodia di strambo ragazzo bianco in un mondo di neri, un po’ come il poliziotto di Sanford and Son o Bentley dei Jefferson. Lo scherzo funziona, ed Eminem lo spreme fino all’osso – e ci ricorda quanto il pubblico hip hop anni ’80 amasse Pee-wee Herman.
I beat di Slim Shady sono classico funk West Coast in perfetto stile Dre, ma i solidi groove della produzione non vi distrarranno mai dalla voce del rapper. Eminem ha tecnica – è un dizionario vivente di rime sparate alla velocità del suono, ma con lo stesso dono del dissing che aveva LL Cool J. Non racconta mai di lusso e gangster, ma di lavori al minimo sindacale, bulli da liceo e assurdità condite dalla droga, sempre con rime del tipo “I bought Lauryn Hill’s tape so her kids could starve”. Il suo viaggio mistico verso la battuta più scorretta di sempre potrebbe portarvi in luoghi che non avreste mai pensato di esplorare, e non c’è verso di aspettarsi qualcosa di diverso da un album così dichiaratamente offensivo. Certo, le rime sul bitch bashing stancano in fretta; non c’è niente di divertente nelle battute sull’omicidio della moglie in ’97 Bonnie and Clyde, e My Fault starebbe a meraviglia su un disco piagnucoloso dei Bloodhound Gang. Ma le cazzate da maniaco continuano ad andare a segno quando Eminem se la prende con il suo bersaglio preferito: se stesso.
Come un discepolo dell’hip hop che ha ereditato una storia razziale che non gli appartiene, Eminem parla per molti dei suoi fan quando si chiede: “How the fuck can I be white?/I don’t even exist”. Gli altri bianchi sono incomprensibili per lui: cowboys, hippie, fighetti da confraternita e sfigati inglesi appaiono in Slim Shady come stereotipi da cartone animato, gente a cui non vale la pena nemmeno dedicare una risata. Eminem non ha molti soci da celebrare, nemmeno quelli del passato nel ghetto, e c’è qualcosa di solitario nell’ascoltare un album rap con solo ed esclusivamente una voce. Ma il rapper di Detroit è abbastanza intelligente da trasformare la sua alienazione culturale in una gag ricorrente, e si guadagna il suo posto da rap star un insulto disgustoso dopo l’altro, battagliando contro il mondo con una manciata di insulti in una mano e una scatola di lassativi nell’altra.