Quello che segue è un racconto su Keith Flint. Non un racconto lungo e dettagliato che si prenda l’onere di riassumere 49 anni di un uomo allucinante sotto molti aspetti, semmai un’istantanea della mia memoria per rendere l’idea di chi era l’ultimo Keith Flint, avendo passato con lui e i Prodigy un’intera mattina, il 17 ottobre 2018.
E non vuole nemmeno essere un “io c’ero, l’ho conosciuto” ma un ritratto che renda giustizia a un uomo che era ben diverso dal se stesso di 25 anni fa e che, a differenza delle solite cazzate semplicistiche sul suicidio che sicuramente leggeremo e sentiremo nelle prossime ore, non era di certo uno che si arrende. Anzi.
Insomma, questa mattina di quattro mesi fa inizia molto presto, alle 6, con un volo Linate-London City («Shiiiiiit», commenterà Keith la mia levataccia). L’incontro coi Prodigy è fissato alle 11 e 30, ora locale, in un pub di King’s Cross che ormai non ha più senso mantenere segreto, The Star Of Kings. Da cinque anni è il ritrovo della band, avendo Liam (Howlett, il produttore) comprato uno studio lì dietro dopo decenni di quartier generale situato in una parte imprecisata di West London.
I Prodigy vanno allo Star per bere una birra, per schiarirsi le idee o anche solo per chiacchierare. In questo caso, per farci le interviste per il nuovo No Tourists.
Come ogni pub che si rispetti, di mattina è deserto, tanto che sulle prime comincio a dubitare di essere nel posto giusto. «Posso aiutarti?», chiede l’omino dietro al bancone, che ovviamente sta asciugando dei bicchieri col panno. Rispondo che sono qui per l’intervista. Senza fiatare, alza l’indice per indicare il piano di sopra.
In cima alle scale, in una stanzona col pavimento in legno e le finestre che danno sulla strada, trovo Keith, Liam e Maxim. Stanno seduti al tavolo, su cui hanno appoggiato i cellulari e alcuni effetti personali. Quelli di Keith si distinguono per stravaganza: tre diverse boccette di liquido per la sigaretta elettronica e la stessa sigaretta, che fra le sue mani iper-tatuate sembra un po’ fuori luogo. Ha smesso di fumare da tempo, dice, lo fa perché ormai c’ha un’età e fumare ti toglie troppo fiato.
Non è il più loquace dei tre, però a mani basse è il più magnetico. Non solo perché è il volto dei Prodigy, da sempre “quello fuori coi capelli verdi”, ma perché è banalmente il più divertente. Per rompere il ghiaccio butto lì una grande verità, quella per cui il giorno delle interviste è sempre il migliore per un giornalista ma il peggiore per l’artista. Il musicista in cuor suo condividerà sempre al 100% questa verità, ma non lo ammetterà mai per, boh, rispetto e per semplice educazione. «Oh, sì, è vero, lo è», risponde invece Keith con una tale schiettezza e sincerità da scatenare immediatamente la risata generale.
La chiacchierata, poi pubblicata sull’ultimo magazine di dicembre ’18, prosegue toccando punti molto cari alla band, dagli esordi e quel primo concerto al Four Aces Club nel 1990 alla grave carestia di rabbia di cui soffre la musica contemporanea («Se vuoi fondare una band, assicurati di avere qualcosa da dire. Altrimenti non fare un cazzo»). I più loquaci sono Maxim e Liam, mentre Keith interviene solo quando l’argomento gli sta a cuore particolarmente. «Non so niente di politica», interviene Keith gesticolando con le mani quando la discussione si sposta su cose serie. Sguardo spesso assorto fuori dalla finestra cercando chissà cosa. «Ognuno faccia quello che gli viene bene, noi ci occupiamo di musica».
Nel momento in cui arriva la mia birra al tavolo, la nostra mezzora a disposizione è quasi finita. I discorsi si fanno più generali, quasi riassuntivi, e Keith trova il modo per mettere in campo una delle sue più grandi passioni, le moto. «Ce la godiamo molto più di una volta. Penso che ogni persona di successo lo voglia per davvero, mi segui? Se hai un bruciante desiderio di fare qualcosa, ne hai bisogno come fosse droga, prima o poi avrai successo in quell’ambito. Prendi Valentino Rossi, è una delle persone più carismatiche che abbia mai conosciuto. Lui è l’esempio perfetto di questa cosa». I suoi occhietti, un tempo nascosti dietro a quintali di mascara, continuano a illuminarsi quando si parla di velocità e adrenalina, due elementi che l’hanno spinto anche a correre in gare decisamente al limite dell’umano, come quella sull’Isola di Man.
Fatti i saluti e ringraziato l’ufficio stampa, scendo di sotto in cerca del bagno. La pinta di 20 minuti prima si sta già facendo sentire. Trovo una porticina al piano terra con sopra la scritta “GENTS”, entro convinto di avere il bagno tutto per me. Ci trovo invece Keith che sta usando uno dei due strettissimi orinatoi fissati al muro. L’ultimo ricordo di Keith Flint ce l’ho qui, tatuato nel cervello: lui che mentre pisciamo con la sua voce nasale mi dice ridacchiando: «Si fa sentire la birra, eh? Te la sei meritata».