Dipendesse da me, da marzo in poi farei uscire solo dischi di band neopsichedeliche per andare incontro all’estate col giusto piglio, ovvero come se tutto il mondo fosse un’enorme e acida California di un giorno a caso degli anni Settanta. Okay, sto dicendo stronzate, fosse per me farei uscire tutto l’anno solo dischi così, per cui non sarò certo io a fare le pulci al diciottesimo e omonimo disco dei Brian Jonestown Massacre, che viene pubblicato a soli sette mesi di distanza da Something Else e a seguito di un tour mondiale di grande successo che ha toccato anche l’Italia, durante il quale quasi tutti i nuovi pezzi sono stati presentati dal vivo.
Nessuna strategia di marketing, nessuna sorpresa, nessun countdown o perverse attività sui social. Queste idiozie non c’erano negli anni Settanta, bastava saper suonare le chitarre e avere un paio di buone idee per farsi ascoltare. Anche per questo mettersi a fare le pulci a un disco dei Brian Jonestown Massacre sarebbe un’enorme perdita di tempo priva di senso, poiché si tratta di lavori che includono l’imperfezione, passaggi trascurabili e schemi già visti e rivisti, che non scende in alcun modo a patti con il pubblico pur di ottenere uno streaming in più. Tutto ciò che è radicale merita rispetto e sebbene la band californiana non sia esattamente una setta di fanatici sovversivi, l’andazzo generale li erige inevitabilmente a membri di spicco di una rara specie in via d’estinzione e a portavoce di un sogno senza tempo.
Parte integrante di questo sogno è poter scrivere su Rolling Stone ancora nel 2019 che To sad to tell you è caustica come Ain’t it fun nella versione dei Rocket from the tombs, o che l’inizio di Drained ha le chitarre di certi Stooges, o che qua e là ci sono i soliti: da Donovan ai Velvet Underground, da Bowie ai The Jesus and Mary Chain o gli Zombies. Per limitarci ai soliti nomi e nemmeno a quelli più recenti, visto che i Brian Jonestown sono in buona compagnia di un sacco di altre bestie in via di estinzione, tanti piccoli apostoli che tramandano briciole di Novecento in giro per il mondo e che tutto sommato non se la passano neanche troppo male.
Tra tutti Anton Newcombe gode dei favori di chi questa nuova ondata l’ha iniziata ormai quasi trent’anni, il che rende ridicolo chiamarla “nuova ondata”, anche se al tempo tale non era, ma solo il geniale delirio di una rockstar un po’ troppo sottovalutata per tutti gli anni Novanta, quando forse la sua ispirazione era all’apogeo. Se non siete tra quelli che l’hanno già fatto, guardatevi il documentario Dig! per averne una conferma.