Gli UNKLE sono uno di quei progetti fluidi e attivissimi, che stordiscono il fan medio con uscite discografiche a raffica, diluite con live, edizioni remixate, remix di brani altrui, colonne sonore, “bonus track version”, versioni deluxe etc etc etc, molte delle quali sono trascurabili e minori. Per fortuna ogni tanto, in mezzo a questa bulimia produttiva, esce fuori anche un disco di inediti, e allora è tutta un’altra storia e bisogna drizzare le orecchie.
Innanzitutto perché nessuno come gli UNKLE può vantare nel corso della propria carriera lo stesso numero di collaborazioni eccellenti, per cui ogni album somiglia a una specie di all star game. In passato sono finiti sotto i ferri di James Lavelle & co – ultimamente molto poco & co – nomi come Nick Cave, Thom Yorke, Mark Hollis, Ian Brown, Robert Del Naja, Mark Lanegan, The Black Angels e davvero tanti altri per cui a ogni nuovo album la prima cosa da fare è spulciare la tracklist e passare al vaglio i featuring. E infatti il secondo capitolo della trilogia The road non si fa parlare dietro: Tom Smith degli Editors, Jon Theodore dei Queens Of The Stone Age, Micheèle Lamy e Andrew Innes dei Primal Scream, Mick Jones dei Clash e molti altri, tra cui anche Mark Lanegan e Keaton Henson che avevano preso parte anche al precedente capitolo della saga e assieme agli intermezzi fanno da filo conduttore nel concept.
Lavelle l’ha descritto come un «mixtape per un lungo viaggio, il primo capitolo parlava di lasciare casa e il secondo del viaggio e della scoperta», il sottotitolo è Lost highway, il che fa inevitabilmente pensare a Strade Perdute di David Lynch. Non tanto per la follia surreale lynchiana, ma per l’iconica inquadratura dell’autostrada illuminata solo fino a un palmo dal naso e il buio totale attorno. The Road II è un lungo tragitto pieno di sorprese che sbucano da un momento all’altro dal buio di fondo di un’immaginario certamente oscuro e tenebroso al quale si rifanno gli UNKLE. In un’ora e venti di disco, l’unica cosa giusta da fare è togliere le mani dal volante e godersi il tragitto, perché di cose da guardare fuori dal finestrino ce ne sono eccome.
Abbiamo menzionato i featuring, tra cui ovviamente spicca la voce di Tom Smith nel singolo Other side che rappresenta il primo picco all’inizio del lungo e variegato cammino. I delay e le compressioni lasciano spazio al pianoforte e voce di Long Gone con Tessa Angus & Ysée & Philip Sheppard, una specie di gospel acido e ancestrale al tempo stesso, ma si cambia subito registro con Only you, uno dei tanti pezzi intensi e portanti di tutto l’album, una specie di dark-dance in falsetto, supportata dagli archi. Si prosegue con il pregio di non sbrodolarsi mai tra molteplici generi e sperimentazioni, anzi, nonostante le varie capriole stilistiche, il disco è tutt’altro che sperimentale e mantiene una stabile coerenza fino alla fine. Il che è strano a dirsi se si pensa ai balzi tra l’altro apice acustico-celestiale di The first time ever I saw your face, la litania slowcore un po’ Slint e un po’ alt-rock alla Black Rebel Motorcycle Club di Crucifixion / a Prophet e al trip-hop nella sua forma più classica e autentica di Ar.Mor.
Si diceva di lasciare le mani dal volante e godersi il tragitto e infatti il veicolo ha perso il controllo da un pezzo, è finito fuori strada e sta rotolando da un precipizio, eppure inspiegabilmente ha retto gli urti. Non si tratta di un capolavoro memorabile, nonostante la maestosità degli intenti e tutti i fronzoli stilistici, gli intermezzi, il disco diviso in due parti, la trilogia e tutto il resto, siamo nel 2019 e questi sforzi sono tutti vani, non fanno più effetto, purtroppo. Ma rispetto ad alcuni passi falsi del passato e anche rispetto al già valido capitolo precedente della trilogia, il risultato è ottimo e ripaga lo sforzo di chi ascolta fino alla fine ventidue tracce complessive.