Nel suo album del 2017, Flower Boy, Tyler, the Creator ha provato a rispondere alla semplice, bruciante domanda: Who dat boy? Già, chi è quello lì? Il risultato è stato una rivelazione. Tyler è sbocciato letteralmente, investigando sul proprio passato ed emergendo dallo sgabuzzino tutto agghindato di motivi naturalistici e un paesaggio soleggiato fatto di synth storditi, splash di piano, e archi à la Henry Mancini. In questo processo, ha radicalmente ricontestualizzato il suo passato da agent provocateur sotto l’effetto di Ritalin, che faceva canzoni dal titolo di AssMilk, twittava dall’account @fucktyler e urlava insulti omofobi a tutti troppo spesso.
Ma alla fine, Flower Boy si è rivelato un trionfo nel reinventarsi un suono e un’etica, senza però soffocare la sua natura sovversiva.
Come Flower Boy, il nuovo album IGOR è fatto per i mesi estivi. È un ricco e caotico mélange di R&B, funk e rap luminoso che però nasconde un sotto testo agrodolce. Nei testi, Tyler traccia il percorso emozionale di essere il terzo, strambo incomodo in un triangolo amoroso. “Your other one evaporate, we celebrate/You under oath, now pick a side” rappa in New Magic Wand. In IGOR, Tyler raramente recita il ruolo del personaggio nel video di What’s Good, in cui tira dei vigorosi pugni all’aria mentre indossa una parrucca bionda a caschetto e un abito rosa. Il più delle volte infatti è ferito e vulnerabile, messo a terra da un tormento emozionale.
La storia del ragazzo tormentato che vive una relazione tormentata è raccontata in maniera esauriente, ma non rappresenta la parte centrale del disco. Semmai, serve per gli strampalati esperimenti vocali. Ora Tyler rifugge dal suo gracchiante tono baritonale per esplorare uno spettro che comprende il falsetto à la Pharrell e i rappati sghembi. Anziché costruire canzoni attorno a motivetti accattivanti e facili strove da 16 battute, si affida a pause importanti, fermandosi spesso e volentieri per ripetersi più volte e vacillare. Vagare alla cieca in una produzione già ricca di suo. Il primo momento in IGOR che potremmo descrivere come “strofa” non arriva fino a metà della seconda traccia, Earfquake, quando Playboi Carti prende il microfono e lascia la sua voce di angelo scorrere sul beat. Dall’altra parte, la comparsata di Kanye West su Puppets suona come se stesse mugugnando in una lattina.
Nascondendo le sue voci all’interno del mix, Tyler ci sta dicendo che si vede prima di tutto come un produttore, poi come un cantante e poi rapper, in questo ordine. “La gente a caso che mi si avvicina per parlarmi del bridge su I THINK mi riempie di gioia” ha twittato Tyler quando è uscito il disco. “Chi mi conosce sa che posso essere fastidioso coi discorsi sui bridge e le progressioni, quindi sono entusiasta della gente che ci fa caso. La versione che sentite è la nona, l’ho continuata a rifare finché non era PERFETTA.” Al di là di quanto Tyler possa essere pedante sui discorsi dei bridge, è chiaro a tutti l’orgoglio che il ragazzo ci mette nelle sue meticolose produzioni. Lungo IGOR, riesce a raggiungere un equilibrio felice fra strutture dei brani eccentriche, a tratti surreali, piene di orgasmi di synth, a un chiaro arco narrativo e calcolatissime deviazioni di tono e texture.
IGOR è un album sentito, che vede Tyler abbassare la guardia per rivelare se stesso: un artista innovativo che sta ancora crescendo e che si è finalmente liberato della pelle da volgare cawboy di Internet. Nel pezzo finale, chiede ingenuamente all’ex partner: “Are we still friends? Can we be friends?” Il suo cantato è ancora amatoriale, ma la produzione, ancorata a un dondolante campione di Al Green, è immensa. Non è difficile immaginarsi Tyler che chiude il suo set, in uno qualsiasi dei festival in cui è headliner quest’anno, agitandosi avanti e indietro, portando il dolce ritornello a una folla di 50mila persone.