I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca non si sono verificati nel 194… a Orano, è invece confermata l’opinione generale che essi furono tutt’altro che in armonia con il luogo, uscendo un po’ dall’ordinario.
Questa volta il luogo del contagio non è una placida città mercantile sulle coste algerine e non ci sono carcasse di roditori a bordo strada. Soprattutto, a differenza della trama della Peste di Albert Camus, questo non è un romanzo, anche se più di un personaggio coinvolto potrebbe indurre all’errore. Teatro del focolaio è l’Italia, con focolai sparsi lungo tutta la penisola. L’agente patogeno si chiama Matteo Salvini, il vettore è il Movimento 5 Stelle.
Senza un dottor Bernard Rieux a suonare il campanello dell’allarme, ci vorrà del tempo per capire quanto siamo nei cazzi. E allora – visto che della “malattia”, in buona compagnia, abbiamo scritto parecchie volte -, vale la pena soffermarsi su chi l’ha veicolata.
Il 4 marzo del 2018 il Movimento, fondato una decina d’anni prima nelle piazze a suon di perentori vaffanculi, veniva consacrato come prima forza politica del Paese. Era un benservito fragoroso a tutta la classe dirigente precedente: “il vero inizio della Terza Repubblica”, sancirono i più ottimisti tra i Casaleggio Boys. Che in quanto a prosopopea hanno sempre dimostrato un discreto talento, come confermarono alcuni mesi dopo quel trionfo elettorale, quando l’esecutivo messo in piedi in compagnia dell’altra forza uscita vincitrice dalle urne, la Lega, venne trasformato nel “Governo del cambiamento”.
La compagine nasceva – sarà un anno il 1 giugno, auguri! – fortemente sbilanciata nei confronti di Di Maio e soci, forti del quasi 33 per cento dei consensi (un italiano su tre, tra quelli andati ai seggi). Salvini, con il suo 17% circa, era l’azionista di minoranza, e non di poco. Ma la politica non si fa – oggi meno che mai – con le poltrone, e in breve tempo il leader leghista iniziava a imporre la sua personalità e la sua agenda. E gli altri, divenuti tutto di colpo inefficaci comunicativamente, a inseguire. La sensazione che stesse cannibalizzando dall’interno – con disarmante facilità – i suoi alleati di governo era forte, il voto per Bruxelles lo ha confermato oltre ogni bassa aspettativa pentastellata.
Del tutto vana è stata anche la presa di distanza operata da Luigi Di Maio nelle ultime settimane di campagna elettorale, quando il vicepremier ha provato a reagire dando – più o meno – del fascista, del fanatico religioso e dell’influencer della politica al suo socio. Ormai era tardi e, soprattutto, non era chiaro perché allora avesse deciso di mandarlo al Viminale, vista la bassa reputazione che aveva del collega.
L’epifania – il giorno in cui i topi morti nei vicoli sono diventati un po’ troppi – è stata ieri attorno alle 23.30, quando le proiezioni hanno detto che gli equilibri tra le due forze di governo – che comunque mantengono oltre il 50% dei consensi, uno dato monstre se si calcola come stanno riducendo i conti pubblici – sono del tutto ribaltati. 34% Lega, 17% M5S, 6 milioni di voti in meno per questi ultimi.
È presto – e altri lo possono fare decisamente meglio di noi – per l’analisi dei flussi, ma, come ha suggerito il giornalista Guido Vitiello in un tweet “in questo caso è più corretto parlare di travaso di bile” (per altro, vista la cromatura “gialloverde” dell’esecutivo, è una definizione particolarmente indicata). Perché non è esattamente come ha detto Di Maio nella surreale conferenza stampa dell’analisi della sconfitta: “Il nostro popolo non è andato a votare”. Piuttosto il “vostro popolo” è passato armi e bagagli a Salvini. Senza nemmeno doverci pensare su troppo: se i punti all’ordine del giorno sono una generica incazzatura contro i poteri forti – banche o Europa che siano – e un’altrettanto generica vicinanza alla gente comune, quello di Milano oggi risulta molto più credibile di quello di Pomigliano. Ergo, votano lui.
Il governo Conte fra poco ci saluterà, di esso rimarranno qualche meme e il materiale per una pièce teatrale. Il Movimento, svuotato da dentro dall’amico di contratto, allora avrà definitivamente esaurito il suo compito storico, portando a compimento un rise & fall davvero unico nella storia della politica contemporanea. Sarà un sollievo studiare la loro traiettoria sui libri di storia e non più sulle pagine dei quotidiani, nella consapevolezza che in un solo anno di potere come un Cavallo nelle mura di Troia ci hanno consegnato al peggiore che ci potesse capitare.