Se Giuseppe Conte fondasse un suo partito alle prossime elezioni otterrebbe il 12% (sarebbe quindi la quarta forza politica del Paese). Il 7% di questi voti proverrebbe dal Movimento 5 Stelle, il 3% dal Pd, il resto dalle formazioni minori dell’area di centrosinistra. Nulla dal centrodestra. Il sondaggio è stato diffuso da Noto, durante Cartabianca su Rai Tre. Con tutto il rispetto per chi lo ha realizzato, non gli crederemmo neanche se fosse l’ultimo rimasto sulla faccia della terra.
Ricordate Mario Monti? Già presidente del Consiglio, senatore a vita e uomo della provvidenza dopo la crisi del 2011 che portò al collasso del governo Berlusconi, al suo primo confronto con le urne, nel 2013, portò a casa un 10% considerato da tutti misero. I sondaggi, infatti, lo volevano con il vento in poppa: un 15% circa di base elettorale e lo status di leader più gradito tra quelli in lizza. Il motivo per cui gli italiani avrebbero dovuto tenersi il super tecnico – chiamato per fare il lavoro sporco sui conti, non esattamente il miglior modo per fare incetta di voti – non era del tutto chiaro, eppure la narrativa attorno al suo imminente trionfo alle urne fiorì rigogliosa per mesi. Fino allo delusione.
Ma Monti e Conte sono del tutto diversi, direte voi. Vero, quest’ultimo è molto peggiore. Da ogni punto di vista, e in particolar modo da quello elettorale. A chi parla la sua candidatura? Quali valori incarna? E le istanze di cui si fa portavoce? Qual è la sua classe sociale (eh già, proprio così) di riferimento? Nulla di tutto ciò. Se fosse una questione di aplomb e profilo istituzionale è bene convincersi una volta per tutte che in questo momento storico in questo Paese i voti moderati non esistono, e nessuno come il numero uno dell’esecutivo gialloverde dovrebbe saperlo. Se, invece, si guarda a lui per drenare consensi in fuga dagli attuali partiti di maggioranza, buona fortuna…
La verità è che la presunta sexyness elettorale dell’avvocato di Volturara Appula è l’ultima fregnaccia gentilmente donata al popolo dal governo del cambiamento, per cui il presidente con il ciuffo è stato a seconda delle circostanze padre rassicurante o parafulmine aziendale. Lo stesso racconto farlocco che ha trasformato una spartizione di potere – la democrazia è questo, per noi pessimisti di natura – in un contratto tra gentiluomini, che ha ammantato di volontà popolare un esecutivo frutto di un incarico del presidente della Repubblica e di voti parlamentari. Esattamente come tutti gli altri, come i governi tecnici che ci avevano tolto sovranità popolare, come Letta, Renzi, Gentiloni.
Conte è una sorta di consulente pre-matrimoniale, che officia le nozze e poi vive in casa degli sposi con il suo nome sul citofono. Per questo fanno tenerezza i vari tentativi che sono stati fatti in questi mesi per dare credibilità alla leadership di un presidente nato commissariato (soprattutto da parte di quel direttore parecchio celebre e un tempo bellicoso che ne è diventato una specie di biografo). La leadership del presidente, semplicemente, non è mai esistita. Non c’era quando si lodava la sua capacità di muoversi nei grandi consessi internazionali, di parlare inglese fluentemente, di mettere in riga uomini e donne della sua compagine.
L’unica dote di Conte è sempre stata la sua “italianità”, per dirla con Stanis La Rochelle. I suoi equilibrismi, le sue metamorfosi, la capacità di rimanere appeso all’occasione della vita. Per un anno è stato zitto su tutto. Come un labrador in ascensore che pensa solo al momento dell’evacuazione, ha osservato l’escalation di stronzate social e mosse da arruffapopoli dei suoi datori di poltrona. Senza fare domande, senza farsi domande. La sua inconsistenza è stato il suo più grande pregio.
Solo che poi gli è esplosa tra le mani, quando i due che lo hanno incoronato hanno iniziato a spadellarsi in faccia. La querelle tutta elettorale delle scorse settimane tra Salvini e Di Maio lo ha eclissato: niente più inaugurazioni di cavalcavia, incontri con capi di Stato, il suo ristretto spazio politico è stato definitivamente annullato. Indossare ogni giorno il profilo istituzionale nel governo meno istituzionale che ci sia, d’altra parte, non deve averlo agevolato.
Si arriva a qualche giorno fa, quando Giuseppe Conte è sbottato. Si è presentato davanti ai giornalisti e ha chiesto al capo della Lega e a quello del Movimento se stessero ancora assieme, se il governo che gli avevano donato esistesse ancora. Avrebbe potuto creare un gruppo su WhatsApp, indire una riunione di governo, al peggio presentarsi in parlamento e chiedere la fiducia. Invece ha convocato una conferenza stampa, perché i tempi sono assurdi e lui ne è un fantastico interprete. “Al 38° coglionazzo e sul 49 a 2 di punteggio, Fantozzi incontrò di nuovo lo sguardo di sua moglie”, recita una scena capolavoro della saga capolavoro. Ecco, ci manca solo che Conte si metta in testa di andare davvero alla riscossa come il ragionier Ugo: finirebbe allo stesso modo, con l’Italia nel ruolo della vecchia presa in ostaggio.