Lo scorso 27 ottobre David Lynch, uno dei registi più noti, influenti e prolifici degli ultimi decenni, ha ricevuto un Oscar alla carriera.
Quello che ho scritto è quasi tutto falso.
Cioè, è vero che Lynch è stato premiato; l’occasione è stata quella dei Governors Awards, uno spin-off e antipasto degli Oscar che raccoglie i tre premi alla carriera – l’Academy Honorary Award, il Jean Hersholt Humanitarian Award e l’Irving G. Thalberg Memorial Award, è OK se non li conoscete – che fino al 2009 venivano assegnati durante la cerimonia principale. Insieme a lui quest’anno sono stati premiati Wes Studi, l’attore Cherokee che avete visto in Balla coi lupi, Geena Davis e la nostra Lina Wertmüller, la quale sostiene che il merito del riconoscimento è tutto di Leo DiCaprio, evidentemente tornato amico dell’Academy dopo aver finalmente vinto il suo primo Oscar.
Torniamo a Lynch. Noto? Non ci scommetterei, non al di fuori del comunque ristretto circolo degli appassionati di cinema; certo moltissimi sanno cos’è Twin Peaks, e i più coraggiosi avranno magari incrociato Mulholland Drive, ma David Lynch è sempre stato un autore anticommerciale (non per ripicca ma per indole) e non un nome di cui si discute in coda al supermercato o sulla colonnina destra di Repubblica. Quelli sono gli Spielberg, gli Scorsese, i Sorrentino, i chi volete voi; David Lynch non è uno di loro.
Anche sull’influente vorrei discutere, cioè: non credo si possa usare il termine come sinonimo di “copiato da tutti”, pochissimi provano a fare “un film tipo Lynch”, banalmente perché il cinema di Lynch è personalissimo e inestricabilmente legato all’autore e alla sua identità (o anche: conoscere l’uomo aiuta a capire i suoi film), e ha sempre seguito un percorso di ricerca artistica non lineare e costruito intorno alle sue esigenze e alle sue voglie. Per cui copiare il Lynch autore significa provare a copiare il Lynch uomo, e i risultati sono quasi sempre risibili (pensate a Donnie Darko). Diverso il discorso per i sempiterni film “dalle atmosfere lynchane”, un’espressione che si usa per definire alternativamente una storia che gioca con i piani temporali e il rapporto tra fabula e intreccio, oppure una storia che mette reale e surreale sullo stesso piano allo scopo di generare confusione e domande, oppure una storia piena di drappi rossi, oppure una storia con un nano: lo stile visivo e narrativo di David Lynch è un pozzo di ispirazione (nonché spesso una rilettura in chiave psichedelica del grande cinema del passato) da cui i più scaltri sanno pescare gli spunti più ficcanti senza per questo snaturarsi e inseguire l’emulazione pura (Pi – Il teorema del delirio di Aronofsky è un ottimo esempio). Per fare Lynch devi fare te stesso, o qualcosa di simile.
La parte sul “prolifico” poi l’ho messa apposta per dire «ahah non è vero» e lanciare quello che segue: in quarant’anni di carriera David Lynch ha diretto un totale di appena dieci film per il cinema, a fronte di più di venti cortometraggi, quattro serie tv, tre web serie, svariati dischi, alcune mostre d’arte, fumetti, libri sulla meditazione trascendentale e le previsioni del tempo.
Il cinema (e in misura minore la tv, Twin Peaks in particolare) è una frazione dell’opera di Lynch ma in un certo senso ne è anche la summa, il contenitore nel quale il tizio con i capelli strani riversa le cose che ha imparato altrove e le frulla tutte insieme. Ci perdonerà quindi se per riassumerne e celebrarne la carriera abbiamo deciso di puntare sulla “guida definitiva ai film di Lynch” e non, per dire, sulla “guida definitiva alle previsioni del tempo di Lynch”; se poi dovesse offendersi gli offriremo volentieri una tazza di caffè bollente.
(Magari il suo)
(no, sono serio)
(davvero, tra le altre cose che fa Lynch produce anche il suo blend di caffè)
Eraserhead (1977)
Il primo lungometraggio di David Lynch è il progetto scolastico di uno studentello dell’American Film Institute che si era iscritto alla scuola di cinema perché voleva imparare ad animare meglio i suoi dipinti. È anche un’opera surreale che più che raccontare una storia butta in campo alcuni temi (il sesso, l’adulterio, la paura della paternità – in sostanza è un paradiso per psicanalisti) e li tratta a botte di immagini simboliche, non sequitur e deliri espressionisti. Soprattutto, Eraserhead è un modo per Lynch per flettere i muscoli e dimostrare fin da subito la sua totale padronanza di tutti i pezzi che compongono un film e di come interagiscono tra di loro; qui in particolare hanno fatto storia e scuola la colonna sonora – composta dallo stesso Lynch, un monolite già in odor di industrial, forse non a caso il debutto dei Throbbing Gristle è dello stesso anno – e il sound design, che contribuisce a trasformare il film in uno spazio fisico e strapieno di rumorini stronzi che ti fanno stare male. Ah, parla di un tizio che sua suocera vuole farselo e che ha un figlio deforme.
Elephant Man (1980)
La seconda opera del famigerato “regista che fa i film che non si capisce nulla” è in realtà una storia relativamente lineare – per quanto punteggiata di momenti di delirio freudiano che coinvolgono la madre del protagonista – ispirata alle reali vicende di Joseph (qui John) Merrick, un tizio inglese di fine Ottocento che all’età di cinque anni cominciò a sviluppare una serie di deformazioni facciali e corporali che lo portarono ad assomigliare a, uhm, un elefante, dicono le leggende dell’epoca. Se Eraserhead era body horror surreale, dunque, Elephant Man ne è la versione cronachistica, la storia di com’è vivere se non si assomiglia granché a un essere umano, trattata peraltro con estrema delicatezza e una certa dose di sentimentalismo senza un filo di ironia, e sorretta da prove attoriali che facciamo che la pianto subito perché se c’è una cosa che si può dire senza dubbio di Lynch è che sa scegliere i suoi attori e li mette sempre nella condizione di fare al meglio il proprio lavoro – non a caso John Hurt, il Joe Merrick del film, disse dell’esperienza di girarlo «alla fine ce l’hanno fatta, sono riusciti a farmi odiare il mio mestiere».
Dune (1984)
La reazione di fan e critica al Dune di Lynch, primo e finora unico tentativo compiuto (sulla versione di Jodorowsky esiste un bellissimo documentario) di portare al cinema le opere di Frank Herbert, si divide equamente tra il «ma sta scherzando?» e il «non è colpa sua». Produttivamente maledetto – Lynch lo ereditò da Ridley Scott che lo ereditò da Jodorowsky (e probabilmente in mezzo ci sono altri passaggi), Lynch ne girò una versione da tre ore che venne ridotta a due dalla produzione, con intere sequenze tagliate e sostituite da spiegoni ipercompressi ed assurde ellissi girate per l’occasione –, diretto da uno che non aveva neanche letto i libri che stava adattando, Dune non è in realtà il disastro che si racconta. Certo, è scritto e poi montato in modo da non avere alcun cazzo di senso, ma è anche visivamente sontuoso e dà un’idea di che cosa potrebbe davvero fare Lynch se decidesse che gli piace la fantascienza e non l’apocalisse. Il vero problema è che è gelido e meccanico, un automa più che una persona, segno forse che Lynch ci si è divertito e ha usato l’occasione per sperimentare, ma non l’ha mai davvero amato.
Velluto blu (1986)
Qui è dove impariamo quali sono le cose che veramente stuzzicano il signor Lynch, gli elementi fondativi di gran parte del cinema (e della tv) che farà da qui in avanti. Alcuni di questi elementi: il noir, il neo-noir, il thriller, le robe hitchcokiane, misteri e intrighi, il jazz, la musica d’atmosfera in generale, il legame tra la musica e il sesso, il sesso in generale, Kyle MacLachlan, la droga, personaggi con nomi apodittici e autodescrittivi tipo “The Yellow Man”, i rapimenti, i set illuminati strani, i drappi rossi, l’autobiografia e il racconto di sé. Rispetto a ciò che verrà, qui Lynch si appoggia ancora a una struttura narrativa se non lineare quantomeno tradizionale e gestibile, e affida tutti i simboli e i significati al sottotesto. Per questo rimane ancora il film di Lynch migliore da proporre a una persona per convincerla a guardare tutto il resto.
Cuore selvaggio (1990)
Probabilmente il più importante film mai girato per via della presenza di Nicolas Cage su un set di David Lynch, Cuore selvaggio in realtà non si spinge molto più in là di quanto già non avesse fatto Velluto blu. Il fatto che sia l’adattamento di un romanzo e non un’opera originale contribuisce sicuramente ad ancorarlo alla solida realtà del road movie e del sempiterno (tanto che potrei smettere di citarlo prima di arrivare ai prossimi) noir, e la presenza di Cage fa comparire i primi elementi di commedia più o meno grottesca che caratterizzeranno poi il “trittico del Lynch che non si capisce nulla”, come lo chiamano gli esperti. Anche il comparto riferimenti/citazioni/ispirazioni è estremamente pop, si va dal Mago di Oz a Elvis, cioè esattamente la roba di cui ti aspetti che Nicolas Cage e David Lynch finiscano a parlare dopo qualche whiskyno di troppo.
Fuoco cammina con me (1992)
Qui sarò breve perché è impossibile parlare del “film di Twin Peaks” senza parlare di Twin Peaks, né ha molto senso guardarlo se non si è vista prima quella serie su una sonnolenta cittadina americana che nasconde turpi segreti e demoni e che non è IT con Tim Curry. È anche vero che probabilmente goderselo da una posizione di totale ignoranza dev’essere un’esperienza oltre i confini dell’immaginazione, un film apparentemente destrutturato che si fissa su dettagli inutili e nel quale a un certo punto compaiono prima David Bowie poi Chris Isaak. Il punto è che Fuoco cammina con me è un delirio di note a pie’ di pagina della serie che lo ha generato, un film fatto per espandere il canone e la mitologia di Twin Peaks e per dare nel contempo al suo creatore la possibilità di gridare al mondo che per lui Twin Peaks è questo, è fiamme e delirio e sperimentazione folle e gufi che non sono quello che sembrano, non intere sequenze dedicate alle tende di Nadine.
Strade perdute (1997)
Qui è dove Lynch perde definitivamente la brocca.
Scherzo! È solo che dopo aver smontato e rimontato per trent’anni i concetti di colonna sonora, fotografia, montaggio, tutto, a Lynch rimane solo da prendere la storia e trasformarla in un trip. La destrutturazione di Strade perdute inizia su carta; è girato come un thriller (con capatine nell’horror soprannaturale) e ha tutto l’impatto di Lynch al massimo della forma, e in questo senso prosegue sulla strada intrapresa con Velluto blu, ma è prima di tutto una sequenza di brandelli narrativi più o meno blandamente collegati tra di loro e lanciati al vento con aria di sfida dal nostro amico meditatore trascendentale. Che non significa ovviamente che sia “scritto a caso”, Lynch è un amante del dettaglio nascosto e sempre attento alla coerenza interna dei suoi incubi; significa che Strade perdute si fa desiderare e richiede costante attenzione e soprattutto voglia di improvvisare e immaginare e fantasticare e fare ipotesi. È un film da visioni ripetute che una volta svolto (o una volta che si è arrivati a un’interpretazione accettabile e che dia soddisfazione) continua a funzionare come pura esperienza sensoriale.
Una storia vera (1999)
In originale è The Straight Story, che significa più una cosa tipo “come sono andate davvero le cose, senza cazzate” che “una storia vera”, ma va bene così. Che cos’è Una storia vera? Secondo lo stesso Lynch, «il mio film più sperimentale». È la storia, indovinate un po’?, vera, di Alvin Straight, un tizio che nel 1994 attraversò l’Iowa e il Wisconsin a bordo di un tagliaerba. È un road movie a 9 km all’ora in sostanza, che come tutti i road movie è più sul viaggio che sulla meta, e sulle persone che si incontrano durante questo viaggio, e insomma è la più classica retorica che gira intorno a queste storie ma è anche un delizioso viaggio nel Midwest americano, per cui il gradimento dipende da quanto vi interessa il Midwest americano come concetto. Tornando allo sperimentale di prima, il film è girato in ordine cronologico seguendo le vere tappe del viaggio di Alvin Straight, e Richard Farnsworth, il protagonista, era realmente paralizzato durante le riprese a causa di un cancro alla prostata che lo portò a suicidarsi un anno dopo. Credo che Lynch intendesse questo, ma vai a sapere.
Mulholland Drive (2001)
Il riassunto perfetto di tutto quello che Lynch sa fare, frullato in due ore abbondanti di quelle che sembrano visioni di un pazzo e che sono in realtà un racconto piuttosto lineare e coerente sul tema del doppio, del sogno, della differenza tra chi si è e chi si vorrebbe essere e anche, perché no, della fama, del talento, del successo, del magico e dorato mondo del cinema. Raccontato a vignette, o a capitoli, insomma qualcosa di letterario, disseminato di indizi e dettagli utili a districare la matassa apparente (e con più di un momento di pura sfacciataggine con lo spiegone per i più distratti), Mulholland Drive è per lo spettatore innanzitutto un giochino molto divertente, una matassa da sbrogliare, ma è anche un film frequentemente grottesco, uno zibaldone di stili e registri al servizio di una storia ricolma di allegorie e simboli, e – dettaglio fondamentale per la sua riuscita – un racconto emotivamente carichissimo, con un cuore grande così e due protagoniste alle quali è affidato il compito di catalizzare tutte le emozioni possibili (amore, empatia, amicizia, attrazione sessuale, odio, paura, repulsione, tutto quanto) e farle rimbalzare in giro per questo incubo per scoprire cosa succede.
Inland Empire (2006)
I film sono una cosa strana (tantissime foto molto simili tra loro che fatte passare molto velocemente davanti ai nostri occhi diventano tipo un libro ma con la gente vera e il sonoro), girare i film è una cosa ancora più strana, e per la sua ultima (a oggi) opera cinematografica Lynch decide di fare la scelta più ombelicale possibile, e cioè girare un film su che cosa strana è girare i film, tutto visto attraverso gli occhi di un’attrice in crisi che, ehm, come si spiega, diciamo che genericamente “ha gli incubi”. È tutto molto più complesso e strutturato di così, il film è anche in un certo senso una collezione di spunti, un portfolio del Lynch più sperimentale, sempre più lontano dal cinema e sempre più vicino alla videoarte; ma c’è anche tanto amore per la tradizione, le solite fisse musicali del nostro, e in generale una certa aria da jam session più che da progetto strutturato (leggenda, che non riesco a verificare, vuole che Inland Empire sia stato girato senza una sceneggiatura definitiva), il che potrebbe portare qualcuno che non sono io a dire che è un film jazz o un orrore del genere. A oggi è l’opera lynchana che più di tutte dà l’impressione di essere stata girata per compiacere prima di tutto, forse solo, l’autore, per cui è consigliabile solo come punto d’arrivo di un percorso – cioè, non iniziate a scoprire Lynch da Inland Empire perché è facile che vi perdiate, e poi perché altrimenti io cosa ho scritto a fare tutta questa roba?