Sono motivazioni che non chiariscono un granché quelle che i giudici della Corte di cassazione hanno depositato nelle scorse ore, in riferimento alla sentenza con cui alcune settimane fa avevano messo fuori legge la cannabis light. Secondo i magistrati “la commercializzazione al pubblico di cannabis sativa e in particolare di foglie, inflorescenze, olio, resina non rientra nell’ambito di applicabilità della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole”.
Qui il vulnus: lo spiraglio utilizzato da Easy Joint e gli altri “promotori” del CBD, la legge che tre anni fa ha provato a mettere chiarezza nella coltivazione della canapa e evitare le consuete noie agli agricoltori, spesso sottoposti a controlli e sequestri, non si potrebbe applicare nel caso della cosiddetta cannabis legale. Per i giudici non è una questione di quantità di THC: la cessione di marijuana è proibita anche nei negozi autorizzati, aperti in grande quantità in tutta la penisola in questi anni, indipendentemente dal contenuto di principio attivo.
Gli unici prodotti che si potranno vendere sono “alimenti e cosmetici, semilavorati quali fibra, polveri e cippato, oli o carburanti per forniture alle industrie e alle attività artigianali, il materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati, le coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati o destinate al florovivaismo”.
Per quanto riguarda le sanzioni la sentenza non è però chiara: «Occorre verificare l’idoneità in concreto a produrre un effetto drogante». La valutazione sarà affidata caso per caso a un giudice e sta proprio qua il potenziale nuovo impasse: la cannabis light, ripetono da sempre i suoi “promotori” non ha effetto drogante. E quindi sarebbe ancora perfettamente lecita.