Capita che ti prepari un lungo elenco di domande per un’intervista, ma che l’intervistato ti rovini tutti i piani. Letizia Battaglia, classe 1935, è una delle fotografe italiane più famose al mondo. Questa settimana sarà ospite d’onore della Festa di Cinema del Reale, rassegna che oltre a omaggiarla con una mostra che inaugurerà al Castello di Corigliano d’Otranto, Puglia, il 16 luglio e resterà aperta fino al prossimo 31 ottobre, proporrà al pubblico il nuovo documentario di Kim Longinotto a lei dedicato, Shooting the Mafia, ritratto della prima fotoreporter italiana nella Palermo delle stragi.
Già, perché Letizia Battaglia è questo: è colei che è stata definita «la fotografa della mafia». In realtà ha sempre rifiutato quest’etichetta: «Da cronista nella Palermo degli anni 70 fotografavo di tutto, persino le partite di calcio, mi sono ritrovata a immortalare i delitti di mafia semplicemente facendo il mio lavoro», ha ribadito più volte. Ma è innegabile che certi suoi scatti di morti ammazzati, le vittime della mafia, tra cui quel Piersanti Mattarella fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, sono un simbolo della battaglia contro la criminalità organizzata e l’omertà che ne alimenta il potere. E il motivo non sta solo negli scatti in sé, ma nel fatto che, a differenza di altri, Battaglia quegli scatti non si è limitata a pubblicarli sui giornali, ma li ha esposti sotto gli occhi della gente. Nel ’79, nella piazza di Corleone. Oggi, però, preferisce non parlarne. «Posso dire che non voglio più soffrire?», chiede al telefono dalla sua Palermo. «Per la prima volta stamattina mi sono messa un rossetto viola molto scuro sulle labbra e sulle palpebre, e non mi va più di ricordare ciò che mi ha provocato dolore. C’è un limite». E con tono allegro: «Giochiamo, dai!».
Come non comprendere? Letizia Battaglia ha esordito come giornalista freelance tra la fine degli anni 60 e i primi 70; l’intenzione iniziale era di scrivere, ma quando si rese conto che senza foto era difficile vendere i suoi articoli cominciò a scattare. E ha ragione quando afferma che la definizione di «fotografa della mafia» non le rende del tutto giustizia, perché il suo obiettivo si è posato anche su altro. Sulle proteste di piazza, su intellettuali come Pier Paolo Pasolini, sui detenuti, sui riti funebri, sulle coste siciliane rovinate dall’incuranza. Su quella Palermo dove lei che ha viaggiato molto e che ha pure provato a trasferirsi altrove è sempre tornata, come stregata dalla «potente decadenza» – così l’ha descritta – delle strade della città, dei vicoli, dei cortili, dei mercati. Senza dimenticare i ritratti di donne, le sue donne: bambine perlopiù poco sorridenti, ma con una luce negli occhi, con il guizzo della speranza nello sguardo. «Le cerco ancora quelle bimbe con il sogno stampato sulla fronte», dichiara. «E amo ancora immortalare la mia città, continuo a trovarla seduttiva, specie nei quartieri popolari, nelle piazze polverose che fanno da sfondo agli intrighi di uomini e donne, nel suo essere disordine e bellezza insieme». Parla così, la grande reporter siciliana che ha sempre preferito il bianco e nero al colore, perché – ha spiegato – rappresenta il suo sguardo un po’ drammatico sulla realtà ed è più rispettoso di quest’ultima, la rende dignitosa anche quando è orrenda e triste. Non è mai ricorsa al teleobiettivo, perché le avrebbe rubato la possibilità di stabilire un contatto con i suoi soggetti. E tuttora non fa che fotografare: «Ho sempre la macchina con me, finalmente ne ho anche una bella che mi è stata affidata dalla Leica», racconta. «Non me la sarei mai potuta permettere, ho sempre fotografato con macchinuzze, mai avuto soldi».
In compenso si è costruita una carriera unica, prima fotografa in Italia a essere assunta da un quotidiano, il pomeridiano palermitano L’Ora, «comunista, antirazzista, antifascista e antimafia», ci tiene a sottolineare dall’altra parte della cornetta. Altri tempi, gli anni 70 e 80: non c’erano Internet e i cellulari, il mestiere del cronista era tutto un avanti e indietro dalla redazione alla strada, e le notizie dovevi annusarle, anticiparle, correre a scovartele sul campo inseguendo voci, soffiate. Anche se eri una donna e sulla scena di questo o quel fatto di cronaca tutti badavano solo ai tuoi colleghi maschi, atteggiamento che Battaglia ha confidato di contrastare urlando come una matta per mettere in imbarazzo il poliziotto o il vigile di turno e costringerlo a lasciarla passare. «Sono stata fortunata», osserva. «L’Ora mi ha dato l’opportunità di esprimermi, e questo sostenendomi. Adesso è diverso, qui in Sicilia ci sono giornali che pagano 2,50 euro ad articolo: una vergogna. Ma anche dove pagano poche decine di euro è una schifezza. Cosa può pensare una come me di un mercato del genere? Ormai la maggior parte dei fotografi deve per forza svolgere due lavori. Anche negli anni 70 la grande Jane Evelyn Atwood faceva la postina, quando raggiunse la notorietà era già vecchia, ma ora è peggio: i direttori delle testate giornalistiche seguono solo Salvini e le sue vicende, e la buona fotografia non viene riconosciuta, né apprezzata, né voluta, né stimolata».
Parole forti, e le parole Letizia Battaglia non ha mai smesso di tradurle in azione, con quel nome così evocativo che le sembra stato dato apposta perché si trasformasse in un’eroina: sua l’idea del Centro Internazionale di Fotografia nato a Palermo nel 2017, da lei diretto e pensato non solo come museo e archivio iconografico, ma anche come scuola di formazione. «È uno spazio vivo che va avanti con mostre e progetti», dice. «Mi piace occuparmene, purtroppo mancano i soldi. Spero di riuscire a portarvi l’opera di Diane Arbus, una delle mie fotografe preferite. E abbiamo appena bandito un concorso per sole donne di ogni nazionalità, cui abbiamo chiesto di ritrarre il Festino di Santa Rosalia, che è un bell’evento kitsch con la nostra patrona. Si sono mosse in più di 100: dato che non ci sono quasi più giornali che ospitano foto hanno colto quest’occasione, da qualche parte bisogna pur cominciare. Magari poi stamperemo un libro, allestiremo una mostra, intanto lavorano, e questo è importante. Il lavoro mi eccita».
Viene da chiedersi dove trovi l’energia, questa signora di 84 anni, sposatasi a 16 per sfuggire a un padre possessivo e autoritario che non la faceva uscire di casa, madre di tre figlie, liberatasi di un marito che aveva visto come una salvezza e che invece non accettava la sua smania di libertà. Lo ha lasciato a 38 anni dopo un percorso di psicanalisi, poi si è ripresa la sua vita: una lunga storia d’amore con il fotografo Franco Zecchin, la creazione dell’agenzia L’informazione Fotografica, il Centro di Documentazione “Giuseppe Impastato”, la rivista Mezzocielo, i viaggi in India, in Africa, l’incontro di maestri della fotografia quali Joseph Koudelka e Ryszard Kapuściński, il cameo in Palermo Shooting di Wim Wenders. E ancora, le mostre in tutto il mondo e i premi, premi importanti. Letizia Battaglia è stata la prima donna europea a ricevere a New York, nel 1986, il prestigioso Premio Eugene Smith, riconoscimento internazionale istituito in ricordo del celebre fotografo della rivista Life. È stata la prima italiana a conquistare, nel 2006, il Prix Erich-Salomon assegnato dalla Società Tedesca di Fotografia e, nel 2009, l’americano Prix Cornell Capa, tra gli Infinite Awards dell’International Center of Photography di New York.
Nel frattempo il documentario sulla sua vita, Shooting The Mafia, sta facendo il giro del mondo: «Non me lo sarei mai aspettata, è stato presentato addirittura al Sundance Festival di Robert Redford, ci sono andata! È stato premiato alla Berlinale, al Biografilm Festival di Bologna e un paio di settimane fa all’International Film Festival di Bruxelles. Sono onorata da tanta attenzione, ma non sono più interessata alle mie foto di cronaca, non voglio più vederle né giudicarle, non le voglio più, le ho già scattate, basta. Ciò che mi preme è scattare oggi o domani un’altra buona foto. Vado avanti. Ho 84 anni, problemi alla schiena, ma la vita continua e bisogna adorarla fino alla fine. Perché ce l’abbiamo, ma poi non l’avremo più». E anche stavolta non sono parole al vento: se fino al 18 agosto si potrà visitare a Venezia, alla Casa dei Tre Oci, l’antologica Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita, la pioniera del fotogiornalismo – alle spalle un impegno politico che, tra le altre cose, negli anni 80 la portò a diventare assessore comunale a Palermo nell’allora giunta di Leoluca Orlando – ha già un altro progetto in cantiere. «Il 27 agosto inaugurerà a Conversano, in Puglia, per il festival ConTempo, una mostra di fotografie realizzate da me e dal mio caro amico Roberto Timperi», spiega. «Le esporremo anche per le strade, come manifesti di una campagna elettorale: sarà una bella provocazione. Le mie sono rielaborazioni ottenute unendo miei scatti di cronaca con ritratti di nudo femminile più recenti. Sentivo la necessità di sputare in faccia a certe mie vecchie foto, di distruggerle mettendoci davanti un altro soggetto, per esempio il pube di una donna».
La figura femminile è da sempre centrale nel suo lavoro. «Quando qualcuno mi riconosce e mi fotografa non capisco: ma perché mi fotografate?! Però c’è una cosa che mi commuove: l’adorazione delle ragazze. Ovunque vada le vedo che si fiondano su di me e mi domandano come possono realizzarsi, come sarà il loro futuro. Avrebbero bisogno di gente forte e coraggiosa intorno a sé, ma non la trovano. Io, invece, lo sono, coraggiosa. Non solo perché ho fotografato le vittime della mafia, sono anche una donna che ha lasciato un marito ricco rifiutando gli alimenti».