“I Only Swerve For Morrissey” (Adesivo sulla macchina di Morrissey)
Non solo Nick Mason e John Bonham, anche Morrissey è un grande amante delle auto. Nonostante le sue battaglie affinché tutti gli interni siano in eco-pelle e le liti con i Vigili Urbani della Capitale, è sempre stato un entusiasta delle quattro ruote. Soprattutto della Fiat e soprattutto della produzione (diciamo) mignon. Durante la sua permanenza a Roma, prese prima una Giardiniera scura e poi una 500 bianca, con cui si fece immortalare in due shooting per il solito NME. Sebbene a Los Angeles viaggi in BMW e in Inghilterra giri con una macchina pare appartenuta a James Dean (suo mito di sempre), quando non lo si vede a bordo di una Audi RS6, sembra che abbia un’atavica predilezione per le macchine piccole nelle dimensioni.
Senza disturbar Freud o celebri detti per cui le dimensioni non contano, leggenda vuole che tutto risalga al luglio del 1986, quando gli Smiths esistevano, Moz e Johnny Marr non si odiavano e il mondo era ancora sotto shock per l’uscita di quel capolavoro che prende il nome di The Queen Is Dead. Ma dobbiamo tornare indietro di due mesi: il bassista, Andy Rourke, è stato cacciato a causa dei suoi problemi con la droga e sostituito da Craig Gannon. Con il fido Mike Joyce alla batteria, un mese prima dell’uscita del disco, a maggio, i quattro sono chiusi ai Livingston Studios di Londra per provare le canzoni con la nuova (provvisoria) formazione sotto la regia del produttore John Porter. Nessuno di loro, probabilmente, si aspetta che da quelle prove esca fuori uno dei loro pezzi più riusciti e universalmente noti di sempre, ovvero Panic.
Che poi, tutti abbiamo i nostri cinque minuti di luna storta con l’arrivo della bella stagione. Di solito intorno alle nove di mattina, quando stretti come sardine in un mezzo pubblico, stiamo cercando di sopravvivere al Festival dell’Ascella Sudata scrollando Facebook, quando sempre ci imbattiamo in quella dichiarazione o in quel commento che ci fa chiedere perché al mondo i ceffoni non volino in automatico per adagiarsi, con un bello schiocco di terencehilliana memoria, sulle guance di chi se li merita sul serio ma, purtroppo, restano soltanto chimere che ci costringono a rivelarci in improbabili dialoghi nel virtuale con analfabeti funzionali che capiscono si e no un decimo di ciò che scriviamo, costringendoci alla fine all’insulto, effimera soddisfazione, per poi renderci conto che il problema è un altro e bisogna farci i conti. Come dite? Cosa c’entra tutto questo con Panic e gli Smith? C’entra, fidatevi.
Morrissey non è uno che le manda a dire. Ed è uno che si intende di adolescenza e di disagi. Adesso fate voi il condo di quanti scazzi umorali potrà avere affrontato in vita sua. La canzone in questione, che uscì come singolo il 21 luglio del 1986, non ebbe per sé l’immediato successo che invece arrivò con Ask, anche lei singolo in quel fantastico anno. Ask era semplice e orecchiabile, incentrata sul tema tenue della timidezza. Su di una ritmica decisamente new-wave la strana voce di Morrissey dice a un ragazzo immaginario che la timidezza gli impedirà di raggiungere i suoi obbiettivi, anche se la timidezza è una gran bella cosa. Per Panic il discorso è diverso.
Quando esce, non solo entra a stento in classifica ma si porta dietro tutto un polverone per il testo, sospettato di avere connotazioni razziste e, nello specifico, contro certa dance-music in voga in quel periodo e che gli Smiths non vedrebbero di buon occhio. Musicalmente non sembra niente di così complicato. Come molti pezzi degli Smiths, è un brano molto breve e si direbbe privo di sostanziali sviluppi, posato su tre accordi dalle pennate punk e fraseggio folk di una chitarra Richembacker che un’altra storia vorrebbe essere passata dal chitarrista di Byrds a quello dei Roxy Music e da quest’ultimo a Marr, per chiudere il cerchio. Lo stesso John Porter, sentendola, preoccupato soprattutto che la ridicola durata di neanche due minuti e mezzo, decise raddoppiare la lunghezza della prima strofa, scontrandosi però con tutta la band che scelse di lasciare la canzone con la struttura originale.
Ma non è questo evidentemente il punto. Perché soprattutto c’è il fascino inquieto di Morrissey e il suoi testi, visto che anche questa volta imbocca un paio di versi in grado di colpire a segno, come quando rivela che la fonte del caos contemporaneo è la vacuità della musica pop, che non conta niente, says nothing to me about my life, cioè non dice nulla del della mia vita, non mi appartiene. Alla fine chiede ai propri ascoltatori di avere una reazione, di bruciare la discoteca e di impiccare il deejay che la roba trasmessa, ovvero burn down the disco and hang the DJ / Because the music that they constantly play, e quest’ultima invettiva è ripetuta a iosa, comprensiva dell’aggiunta di un vero coro di bambini.
Neanche a dirlo, tutti (o comunque molti) si fermarono all’apparenza delle cose. Nello stesso modo in cui si era sempre fatto per ogni canzone degli Smiths. Morrissey, che di queste cose ci ha sempre goduto, rincarò divertito la dose in un’intervista al Melody Maker in cui parlò di una “cospirazione black-pop”. Apriti cielo. In men che non si dica, gli Smith divennero uno dei gruppi più detestabili di Inghilterra e Panic una delle canzoni più boicottate e aspramente criticate in radio. Stiamo però molto attenti agli equivoci, gli Smiths sono tutt’altro che una frivola boy-band, non furono mai un progetto da cameretta che parla di stati d’animo e musica preferita ma decisamente intellettuali, a partire dal nome che voleva essere, nelle parole dello stesso leader, un omaggio alla gente comune e una non troppo subliminale critica ai nomi pomposi delle band inglesi che spopolavano in quegli anni, dai Queen agli Ultravox. Quindi, sotto le chitarre e brani brevi come se fossero da registrare tutti sempre su 45 giri, si nascondevano testi scritti con acuta intelligenza, non a caso Moz pargolo della periferia di Manchester divorava libri di Wylde e Dostoevskij, mica fumetti di Bunny come i suoi coetanei.
Così, a distanza di sei mesi, prima uscì una dichiarazione di Marr in cui precisava a coloro che si erano offesi: “Direi di mostrami quali sono i componenti di colore dei New Order! Per me i New Order fanno disco-music, ma non ci sono persone di colore nel gruppo. Non ha senso”. E infine, mettendo la saliva sul naso al mondo intero, fu lo stesso Morrissey a spiegare i reali motivi per cui l’aveva scritta, ovvero come protesta contro il dee-jay britannico Steve Wright, colpevole di aver passato in radio la canzone I’m Your Man degli Wham! immediatamente dopo la notizia della catastrofe di Cernobyl. “Sentimmo parlare di Chernobyl e, pochi secondi dopo, le note di I’m Your Man, io e Johnny pensammo fosse senza senso, fuori di testa, irrispettoso. ‘Dannazione, impiccati!’ gridai”. Così il ragazzo convinto di ascoltare canzonette sui generi prediletti della band del cuore, in realtà sta facendo della critica sociale e culturale del Paese in cui vive. L’unico errore commesso da Morrissey fu di valutazione. Era così sicuro del potenziale di Panic che, completate le registrazioni, scommise che sarebbe entrata nella Top 10 britannica e lui si sarebbe comprato una Aston Martin come George Harrison. Invece, dopo un anno, la canzone raggiunse solo un’undicesima posizione. Allora, per penitenza o spiccato senso dello humor, ripiegò su l’acquisto della Mini Cooper come Paul Weller che si vede negli scatti di Clare Muller e divenne la sua macchina preferita di sempre.
Tra le innumerevoli perversioni musicali in giro, degna di nota è sicuramente quella di sbirciare con fare vago nelle macchine parcheggiate, per scovare i Cd riposti sui sedili o nella tasca della portiera. Lo scopo, ovviamente, non è il furto, bensì cercare di scoprire i gusti del proprietario di un’anonima automobile. E’ una fissazione ingenua e fondamentalmente innocua, insomma. Nulla a che fare con chi rischia denunce e schiaffoni sbirciando in ben altri luoghi. Il più delle volte ci si trova con poco: robetta da Autogrill, le solite immarcescibili raccolte di Bob Marley e dei Doors, magari qualcosa di Vasco. La vita, però, riserva delle sorprese. Ricordo una station wagon insospettabile, col bavaglino “Leo a bordo” sul vetro e mezza discografia dei Pantera, e una Panda piena di dispense universitarie e un Cd dei Throbbing Gristle fuori catalogo da trent’anni. In questi casi capita allora di fantasticare: sull’allegra famigliola e le indimenticabili gite fuori porta con Fucking Hostile in sottofondo – che il piccolo Leo di sicuro ricorderà finché campa – o sui magheggi che lo studente deve avere fatto per procurarsi quel disco così raro… o forse lo ha ereditato da qualcuno con ottimi gusti musicali, o chi lo sa.
La scorsa settimana, ho sbirciato dentro una Beatle con un finestrino abbassato. Sugli interni in eco-pelle chiara i singoli degli Simths riversati da vinile in Cd e contenuti in un box-set uscito una decina di anni fa. Non l’avevo mai visto, non aperto almeno. Erano tutte lì: le custodie di Still Ill, This Charming Man, William It Was Really Nothing, Hand In Glove e soprattutto di Panic, con quella bella foto di Richard Bradford in tutto il suo splendore. Chi sa se l’incauto proprietario, oltre a istigare al furto i passanti, sa che in questi giorni ricorre il 33° anniversario di quel magnifico singolo!