Ha da poco portato in scena la sua seconda opera lirica. Sta lavorando a un nuovo album di canzoni pop. Intanto è in giro per concerti: il 28 e il 29 luglio Rufus Wainwright sarà, rispettivamente, all’Auditorium Parco della Musica di Roma e nel Cortile degli Agostiniani di Rimini con Oh Solo Wainwright: An Evening With Rufus. In scaletta, oltre a classici del suo repertorio, materiale dal suo prossimo disco. Così ci ha anticipato in quest’intervista il songwriter canadese-americano, classe 1973, omosessuale dichiarato, reduce da un altro tour organizzato per i 20 anni del suo omonimo disco d’esordio: era il ’98 e Wainwright si presentò sulle scene con un cantautorato pop sofisticato, dal tocco classico, una sorta di “Broadway pop” – potremmo definirlo così – che in quella prima prova premiata con un Juno Award culminava in quel gioiello compositivo che è Cigarettes and Chocolate Milk. Dopo ci sono stati altri album di inediti, una candidatura ai Grammy per Rufus Does Judy at Carnegie Hall (tributo live a Judy Garland datato 2007), un omaggio a William Shakespeare, collaborazioni con varie orchestre che si sono aggiunte a quelle con artisti come Elton John, Burt Bacharach, David Byrne, Joni Mitchell, Mark Ronson. E, come si diceva, due opere liriche: Prima donna, del 2015, e la recente Hadrian, che mette al centro la storia d’amore tra l’imperatore romano Adriano e il giovane greco Antinoo.
Partiamo da qui, Rufus: ultimamente ti sei concentrato sull’opera.
Sono appassionato di opera da quando avevo 14 anni. A quell’età iniziai ad andare all’opera regolarmente, cominciai a studiare i compositori, ad ascoltare le registrazioni. Divenne presto la mia musica preferita e lo è tuttora.
Non quella cui ti sei dedicato poi come autore, però.
Mi sono reso conto quasi subito che difficilmente sarei diventato un musicista classico, non era il mio mondo: io avevo voglia di divertirmi, di andare nei club a ballare, volevo fare le mie esperienze. Insomma, avevo una concezione della vita un po’ più rock’n’roll. Così ho utilizzato il mio amore per l’opera in un altro modo, ossia per scrivere le mie canzoni pop e dare loro un colore particolare. In sostanza la conoscenza dell’opera è diventata la mia arma segreta come songwriter.
Ma poi hai ceduto…
Sì, a un certo punto mi è venuta voglia di scriverne una mia, di opera. Anche in segno di gratitudine, per restituire a questo genere ciò che ha dato a me. Così è nata Prima Donna, seguita da Hadrian. Ce ne sarà un’altra, ma penso sarà l’ultima: il mio pane resta la scrittura di canzoni, l’opera è qualcosa che sta più in alto, come se fosse una religione, dedicarmici è un po’ come andare in chiesa.
Eppure hai detto che realizzare Prima Donna è stato un incubo. Come mai?
Perché avevo in testa delle fantasie che non corrispondevano alla realtà. Ero convinto di potermi immergere in un ambito pregno di creatività, estremamente libero, aperto, un paradiso terrestre della musica, mentre mi sono ritrovato in un ambiente severo, rigido. Oh mio dio, moooolto rigido! È stata dura, ho dovuto adattare la mia prospettiva. Con Hadrian è andata meglio, ero cosciente di quel che mi aspettava.
Hai portato in scena una storia d’amore gay ambientata in tempi antichi: il messaggio è eloquente.
Hadrian è un’opera attuale e contemporanea sia perché ruota attorno a una relazione tra due uomini, sia perché narra l’eterno conflitto tra amore e potere: quale dei due conta di più?
Tu non hai mai nascosto la tua omosessualità. Come ti spieghi che nel mondo della musica, del cinema, dello spettacolo, dello sport ci siano ancora persone che celano il proprio orientamento sessuale? Possibile che nel 2019 esistano ancora cantanti, attori, ballerini, atleti che non hanno il coraggio di raccontarsi liberamente anche da quel punto di vista?
Qualcosa sta cambiando: nello sport, per esempio, c’è stato qualche coming out. Quel che mi sconvolge maggiormente è che non ce ne siano di più a Hollywood. Non so, posso parlare solo per me, e io non sono mai stato capace di mentire.
Nel 2014, proprio in Italia, fosti attaccato per questo: eri uno degli ospiti internazionali al Festival di Sanremo e un gruppo di Papaboys ti criticò per la tua canzone Gay Messiah. Organizzarono addirittura dei picchetti contro di te davanti alla Rai, protesta sostenuta da altre associazioni cattoliche che definirono la tua musica blasfema. Ricordi?
Come no?! Ma sai che fu divertente? Eccitante! Adoro gli scandali! (ride, nda). Amo l’Italia, ma ho capito che non è facile essere gay lì da voi, ci sono pregiudizi, un po’ come in certi territori del sud degli Stati Uniti. E aggiungo purtroppo, perché mi dispiace. Ma cambierà.
A Roma e a Rimini canterai Gay Messiah?
Certo che sì! E testerò anche del nuovo materiale.
Dal tuo prossimo disco.
Disco pop. È quasi finito, dovrebbe uscire la prossima primavera.
Il panorama pop è cambiato parecchio negli ultimi anni, che ne pensi?
Mmm. Alcuni artisti hanno sviluppato uno stile interessante, con voci e tessiture sonore inusuali, gente come James Blake o Perfume Genius. Ma mi sembra più una questione di produzione: se si parla di pop sotto il profilo della scrittura e dei testi la sensazione è che ci sia stato un abbassamento di livello. È come se ci fosse una grande attenzione per le atmosfere in opposizione alle parole, tutto il contrario di quel che accadeva con grandi cantautori come Bob Dylan e Leonard Cohen. È come se quella tradizione cantautorale stesse scomparendo, invece credo sia importante per le nuove generazioni conoscerla. Il rischio è che vada dimenticata.
Intanto sono passati 20 anni dall’uscita del tuo primo album. Il quale, assieme al tuo secondo, Poses, è legato a un periodo tormentato della tua vita: in quei pezzi canti di problemi di dipendenza, paura dell’Aids, droghe, depressione. Esprimevi un malessere provocato dalla smania di celebrità: eri così ossessionato?
Penso fossi avvelenato dalla voglia di avere i riflettori addosso. Come molti altri provavo una fascinazione per il successo, sognavo di diventare famosissimo, volevo essere al top, godere dei luccichii di Hollywood. Per fare parte di quel mondo devi essere un po’ pazzo e in quella fase avevo un’ambizione quasi folle, ma alla fine mi sono reso conto che non mi faceva bene, che volevo altre cose, l’amore, la famiglia. Diciamo che all’inizio, appena entri nell’ingranaggio del music business, non è facile mantenere un equilibrio, forse è anche necessario perderlo, in parte. Fatto sta che puoi diventare un piccolo mostro (ride, nda).
Come ne sei uscito?
Con l’ambizione, ma non quella rivolta al successo o al denaro, bensì l’ambizione di essere un songwriter egregio. Questo non è mai cambiato in me: quando mi siedo al pianoforte e compongo una canzone voglio che sia eccellente, e per mantenere certi standard devi per forza essere disciplinato, serio, attribuire importanza alle cose giuste. È questo l’atteggiamento che mi ha permesso di uscire da quella fase e di crescere come artista.
La critica musicale ti acclama, hai un ampio pubblico che ti segue con passione e non solo in Canada e negli Usa, ma ti capita di dispiacerti per non essere diventato una popstar alla Lady Gaga o alla Justin Timberlake?
Ormai ho capito di non essere la persona giusta per quel tipo di celebrità, credo che la mia salute mentale sarebbe stata a rischio se fossi diventato quel genere di popstar. Ma comunque non poteva succedere, perché lì si tratta anche di costruire una narrazione, un personaggio, e non sono fatto per questo. Mi godo il calore dei fan e gli elogi della critica, anche perché non siamo più nell’epoca in cui esplose Elton John, in cui c’era più spazio per un certo tipo di songwriting: col tempo è diventato tutto più difficile, quindi anche solo essere arrivato dove sono mi sembra sorprendente.
Con Elton John hai collaborato per il suo album del 2001, Songs from the West Coast. E lui ti definì «il più bravo songwriter del pianeta».
Infatti, posso anche morire dopo quella (ride, nda).
In scaletta hai tenuto anche la tua cover di Hallelujah di Leonard Cohen? O ti sei stufato di cantarla? Forse per te ha un significato particolare, dato che hai una figlia con Lorca Cohen, secondogenita del grande Leonard, che stai crescendo con tuo marito Jörn Weisbrodt.
C’è stato un momento in cui ho pensato di accantonarla, quella cover, ma poi Cohen è morto… Mi piace l’idea di continuare a ricordarlo. Anche perché vedo che quella canzone continua ad emozionare tantissimo il pubblico, ha un effetto speciale sulla gente, qualcosa di misterioso, e vorrei far durare quella magia.
E tra i tuoi pezzi, qual è quello che ami di più fare dal vivo?
Forse Evil Angel, è un momento parecchio rock.
Perché hai anche un’anima rock, in fondo: sei cresciuto ascoltando i Nirvana, giusto?
Già, i Nirvana e Wagner: bell’accoppiata!