Secondo il celeberrimo dilemma del porcospino di Arthur Schopenhauer noi siamo istrici in una giornata d’inverno: per scaldarci ci avviciniamo gli uni agli altri, quindi ci pungiamo reciprocamente, e ci allontaniamo di nuovo. Poi sentiamo di nuovo freddo, e allora ci riavviciniamo… ahia! Così via per tutta la vita. Che idiozia, caro Arthur. Invece è tanto bello condividere, stringersi, darsi calore, abbracciarsi, scoprirsi. Il pessimismo della metafora ci sembra estremo. Finché non ci concentriamo sui nostri viaggi aerei. Nei voli, in classe economica, non siamo più in grado di mentire: gli altri sono rivestiti di aculei e quegli aculei ci irritano tremendamente.
Con le nostre ginocchia che premono contro il sedile davanti, con quelle altrui che ci si piantano nei reni, duelliamo con i gomiti per accaparrarci il bracciolo, distribuiamo occhiatacce fin dove riusciamo a girare il collo, consideriamo sacrosanti gli urti che distribuiamo durante le nostre camminate circolatorie e inconcepibili quelli che riceviamo quando a sgranchirsi sono gli altri. Dal momento che soffriamo, acuiamo i nostri sensi e stiamo in allerta: pronti a scovare ogni traccia d’ingiustizia. Non siamo capaci di accettare il dolore in quanto tale. Il malessere dev’essere per forza la conseguenza di un errore della compagnia aerea, dell’incompetenza di una hostess, di un qualche sopruso, dell’arroganza di un passeggero. La sofferenza avrebbe potuto non esserci, se solo gli altri si fossero comportati in maniera decente – come del resto facciamo noi – e invece la sofferenza, per colpa loro, c’è. Eccome. Maledetti!
Se l’opzione per la portata principale che avremmo scelto è già esaurita, se il water è sporco, se non riescono a servirci il caffè per via delle turbolenze, se il tale film non è sottotitolato… se capita qualcosa del genere auguriamo senza troppa fatica il fallimento alla compagnia, la disoccupazione ai suoi dipendenti, malanni vari e orribili destini ai passeggeri. E in ogni caso il posto che ci è stato assegnato resta il peggiore dei posti possibili. Quello ha il “corridoio” e lo spazio per distendere almeno una gamba, quell’altro ha il “finestrino” e può appoggiare la testa all’oblò, quell’altro ancora è più avanti e si sa che là davanti c’è più spazio, un quarto è lontano da bambini che urlano e da individui affetti da meteorismo, un quinto tocca uno schermo che funziona evidentemente meglio del nostro. E quindi li odiamo tutti, questi privilegiati. Questi altri.
Ma, di nuovo, non riusciamo ad accettare un odio puro, astratto, immotivato, gratuito. Che siamo, dei mostri? Dobbiamo trovare una ragione particolare per il nostro odio, così abbiamo dovuto trovarla per il nostro dolore. Eppure dei nostri vicini non sappiamo nulla. Cerchiamo di scovare degli indizi che ne rivelino l’essenza malvagia, l’egoismo, l’inferiorità antropologica, i crimini. L’alcolico dozzinale che ordinano, il pasto speciale a prova di fantasiose intolleranze, il libro pomposo che leggono, il quotidiano della parte politica indifendibile che leggono, il film demenziale che scelgono, come masticano la pagnotta confezionata, come ripongono il bagaglio a mano nella cappelliera, il modo in cui tengono o non tengono a bada i propri figli.
Stanchi di questi sforzi, quantomeno nelle tratte intercontinentali, a bordo di un prodigio dell’evoluzione tecnica che viaggia a 920 chilometri orari e a 25 mila piedi, affidiamo il pilota automatico alla nostra paleocorteccia, apriamo la gabbia al cercopiteco che sonnecchiava nelle tenebre del nostro intestino, e finiamo per odiare gli altri semplicemente perché altri. Odiamo l’anziano perché è un vecchio, il bambino perché è un moccioso, il milanese perché è un polentone, il napoletano perché è un terrone, il tizio basso perché è un tappo, quello alto perché è uno spilungone, il magro perché smilzo, il sovrappeso perché ciccione, l’uomo in quanto uomo, la donna in quanto donna, il bianco in quanto bianco, il nero in quanto nero. Va da sé, la loro identità deprecabile, il nucleo centripeto della loro essenza nefasta, ciò che insomma catalizza l’odio dev’essere in contrasto con la nostra autorappresentazione. È difficile che una donna sovrappeso odi una donna sovrappeso in quanto donna sovrappeso. Mentre per un uomo anoressico, se le circostanze lo permetteranno, quella donna in carne si trasformerà verosimilmente – e, quasi sempre, segretamente – in troia cicciona. In automatico, la mancanza di spazio traduce i termini politicamente corretti in quelli proibiti: al di sotto del mezzo metro di distanza, anche nella mente di molti liberali, il gay diventa un finocchio. Più stiamo larghi, più siamo tolleranti. Il razzismo è inversamente proporzionale allo spazio a disposizione.
Ed ecco che, come per magia, in business class ci si riscopre gente civile. Prima lei. Ma no, ci mancherebbe, prima lei. Posso aiutarla? Non si disturbi. Sorrisi e inchini. Qui la diffidenza si trasforma in curiosità, l’individuo diverso da noi non è più sbagliato. Ora è interessante. Ci si sente parte di un club di persone per bene, destinate a condividere per qualche ora gli ariosi spazi di un’esperienza gradevole. Che, per giunta, ci siamo meritati. Sono stati i ben funzionanti e lubrificati ingranaggi della società a consentire, a noi, di gustare questo consommé con un cucchiaio di autentico metallo luccicante, di sorseggiare questo borgogna da un bicchiere di autentico vetro. Con le gambe ben stese e la schiena rilassata, risaliamo i gradi evolutivi fino alle vette del cittadino globalizzato, e ci ritroviamo ad amare i mille volti dell’umanità, come quello sofisticato e intelligente dell’omosessuale in giacca e cravatta vicino – ma non troppo – a noi, che tutto sommato non è mica una cosa da buttare, l’umanità. Basta solo un po’ di tolleranza, un po’ di galateo. Del resto, dice Schopenhauer: “La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere”.