Quanti personaggi è in grado di interpretare Mike Patton? Voglio dire, non solo interpretarli ma anche di farli suoi, lasciarli convivere da qualche parte nel suo ipotalamo e all’occorrenza scatenarli. Uno alla volta oppure tutti insieme. È una domanda a cui forse neanche lui sa rispondere, ma per tenerci larghi direi “un botto”, e ogni live dei Mondo Cane ne è la dimostrazione.
Fosse nato a Los Angeles negli anni Venti, a quest’ora le sue impronte di scarpe e mani starebbero di fianco a quelle di Clint Eastwood e i grandi attori della Walk Of Fame. Fosse nato a Verona nel 1830 sarebbe un tenore risorgimentale, quelli un po’ sconosciuti che scopri grazie alle targhette sui nomi delle vie. Siccome però è nato a Eureka, California nel 1968, la scelta più ovvia per sfogare una delle voci più mostruose della storia della musica moderna, paragonabile a quelle di Freddie Mercury o Beniamino Gigli senza che nessuno si offenda, è stata di mettere su una band. E anche quella a un certo punto gli è stata stretta, così come la lingua inglese.
Da perfetto californiano si è comunque presentato sul palco degli Arcimboldi con addosso scarpe a suola piatta da skater, fibbia gigante alla cintura, camicia da ranchero messicano e doppia treccina modello Robert Trujillo classic. Anche i due percussionisti che si è portato dietro sono di «Sanfranciccio, Califoggia», dice Mike verso la fine scatenando inevitabilmente uno tsunami di risate. Ma il resto dell’ensemble, fatta eccezione del direttore dell’orchestrina, è italiano e cresciuto a suon di quei classici della musica leggera nostrana che poi le mille personalità di Patton reinterpretano e stravolgono.
Con quasi le stesse movenze spiritate di un live dei Faith No More (mai visto nessuno sputare per terra sul palco degli Arcimboldi), l’uomo dai mille volti restituisce al pubblico splendide versioni sotto farmaci dei cantanti che ascoltavano i nostri genitori: c’è il Gino Paoli sotto Modafinil de Il Cielo in una Stanza, l’Edoardo Vianello sotto Xyrem di Pinne, Fucile ed Occhiali, il Lontano, Lontano di Tenco che sembra la coda di un bellissimo trip lisergico in discesa, i Blackmen di Urlo Negro in chiave schizofrenica tipo Fantômas.
In tutto questo, nonostante sul palco ci siano mostri sacri come Roy Paci o Enrico Gabrielli, è abbastanza chiaro a tutti che la totalità dell’attenzione sia catturata dall’uomo al centro. «Come andate lì a Milano?» chiede Mike alla folla in un italiano che, nonostante una ex moglie di Bologna e due album intitolati Pranzo Oltranzista e Mondo Cane, non è ancora perfetto, per quanto miglioratissimo negli anni. «Qui sembra di stare sulla Luna. Fa un cazzo di caldo, lui ha un ventilatore [indicando il direttore dell’orchestrina] ma a me non arriva un cazzo!»
Fra le magliette dei Faith No More e dei Mr. Bungle nel pubblico si solleva sempre qualche urlo di troppo, specie nei silenzi che seguono gli applausi. Mike prontamente mette tutti al proprio posto, cioè lui come unica voce fuori dal coro, e alla fine ci si può permettere una cover mozzafiato dello standard napoletano di Scalinatella di Murolo nel silenzio più surreale possibile, con il timbro del cantante in grado di variare dallo stato solido a quello liquido in una frazione di secondo mentre, nel sottofondo, la chitarra classica incede lenta e solenne. Pelle d’oca.
Per il finale si concede, oltre a Dio, Come ti amo di Modugno, anche un «pezzo che canterò in inglese», meglio conosciuto come Retrovertigo dei Mr. Bungle. Una scelta acclamata, ma forse anche un modo per ricordare la prima band fondata nell’85, l’origine tutti i personaggi interpretati che, arrivati a oggi, meriterebbero una Mike Patton Walk Of Fame a parte.